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Channel: Edifici abbandonati – Sardegna Abbandonata
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Villa e Azienda Stangoni

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Una villa e un’azienda abbandonate da oltre 35 anni, resti della storia di una famiglia di imprenditori

Il Coghinas si conferma l’alfa e omega dell’abbandono sardo: acque poco frequentate, che dalle sorgenti alla foce segnano le memorie di un pionieristico passato ingiustamente dimenticato.

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Villa e Azienda Stangoni. VAI ALLE FOTO

Siamo nel centro di Valledoria, nella frazione capoluogo di Codaruina. Poco lontano dall’estuario si nascondono qui in Anglona i resti delle fabbriche che per un secolo hanno portato fortuna e celebrità alla famiglia Stangoni. Furono una casata di brillanti imprenditori di origini corse provenienti da Aggius, che nel 1880 si stabilirono nella bassa valle del Coghinas dopo avervi individuato un possibile terreno di sviluppo, dove il suocero anni prima aveva costruito una cascina alle porte del paese.

Il giovane capo-famiglia, Pier Felice, professore di Diritto e Legislazione rurale, riuscì coraggiosamente a intravedere delle potenzialità di sviluppo in questa zona da sempre paludosa, malarica e soggetta a frequenti alluvioni. Acquistò quindi numerosi ettari di terreno agricolo e vi ampliò la cascina già presente.

La sua parabola si concluse tragicamente il giorno di Ferragosto del 1904: mentre tornava dalla spiaggia fu ucciso davanti ai suoi due figli Arnaldo e Alberto Mario, forse per rivalità da altri possidenti.

Ma gli orfani dell’imprenditore non si persero d’animo: dopo aver trascorso l’infanzia in un collegio fiorentino e conosciuto le atrocità del primo conflitto mondiale, tornarono a Valledoria nel 1920. Qui ripresero in mano l’attività paterna potenziando le mansioni agricole e avviando estesi lavori di bonifica.

DSC_3338Il paese crebbe spinto dalle opportunità di lavoro per la popolazione dei dintorni, passando in pochi decenni dalla ventina di abitanti iniziali ad alcune centinaia. Grazie ai finanziamenti di un’industria toscana del tabacco ora in stretta alleanza, e al coinvolgimento di un architetto belga, vicino alla cascina vennero erette una sontuosa villa liberty e la chiesetta di san Giuseppe, facente parte del terreno padronale.

Giunse il secondo dopoguerra, periodo di massima attività dei fratelli Stangoni, che ormai controllavano un piccolo impero economico fondato sulla manifattura del tabacco e soprattutto sulla produzione industriale di carciofi, pomodori e grano, di cui erano i principali coltivatori dell’Anglona. In particolare, nel 1946 venne costruita all’altro capo del paese la “fabbrica Stangoni”, concepita per l’inscatolamento di pomodori pelati. Quattro anni più tardi nacque il Consorzio di Bonifica della Bassa Valle del Coghinas, il cui cuore era proprio la “Azienda agricola F.lli Stangoni – Codaruina”, che ormai commerciava in tutta l’isola e riceveva continue visite di consulenti della penisola, fortemente interessati al dinamico aspetto gestionale.

DSC_3283Contro le aspettative, il seguente boom economico e l’allargarsi del mercato colpirono mortalmente la piccola realtà territoriale e il sogno degli Stangoni, la cui attività produttiva si spense gradualmente. Già negli anni ’60 l’azienda Stangoni chiuse i battenti e venne abbandonata, e nel 1980 la bellissima villa subì la stessa sorte, pochi anni dopo la morte dei fratelli. Alcuni volantini disseminati al suo interno lasciano intendere che, nell’ultimo periodo, l’edificio fu utilizzato a fini turistici come albergo e agriturismo, con tanto di scuola di equitazione e di volo con deltaplani, l’ultimo improbabile colpo di coda prima dell’oblio.

Oggi la villa Stangoni riesce a trasmettere ancora il suo fascino, imponente, inquietante e vagamente spettrale. Ma allo stesso tempo è una bizzarra commistione di stili, con esterni liberty in un cortile da scuderia, alcune stanze con aspetti caratteristici di inizio secolo e altre con motivi e struttura tipicamente anni ‘70.

Davanti a lei solo infinite distese di pungenti carciofi, il nuovo oro verde del Coghinas.

Dove si trova: nord Sardegna, subito fuori da Valledoria, lungo la SP33. Google Maps.

Foto

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Caserma Lochele

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Una caserma abbandonata in mezzo al nulla: un presidio dei carabinieri a cavallo contro il banditismo, in attesa di un conflitto che forse non è mai arrivato

Ex Caserma dei carabinieri a cavallo, località Lochele, Sorradile (OR) VAI ALLE FOTO
Ex Caserma dei carabinieri a cavallo, Lochele, Sorradile (OR)

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Appare all’improvviso appena il sentiero lascia un rado bosco di lecci. Imponente, massiccia, sembra una fortezza dove ancora ci sono uomini asserragliati in attesa di un imminente attacco che mai ci sarà. E non può non venire in mente il tenente Giovanni Drogo in servizio alla caserma Bastiani nel romanzo “Il deserto dei tartari” di Buzzati.

E’ l’ex caserma dei Carabinieri a cavallo di Lochele. Si trova nel territorio del Comune di Sorradile, anche se il centro più vicino è Sedilo, a circa quindici chilometri. Intorno, poco o niente.

La caserma, quasi un fortino, fu costruita negli anni Venti del secolo scorso come presidio di questa vasta area quasi disabitata e frequentata solo dai pastori dediti alla transumanza, e venne dismessa intorno alla prima metà degli anni Ottanta. Questo territorio era soggetto a passaggi di briganti e latitanti che utilizzavano i passi poco frequentati per spostarsi da una regione all’altra della Sardegna senza essere intercettati.

All’interno c’erano un maresciallo al comando di cinque o sei uomini, più una persona di servizio che si occupava delle pulizie.

La struttura si trova isolata al centro di una radura leggermente rilevata ed è circondata da un alto muro di cinta rinforzato da robusti pilastri. Un grande portale di ferro completamente arrugginito, dotato di un piccolo spioncino, conduce al cortile interno dove oggi trovano ricovero alcune pecore.

La caserma vera e propria si trova all’interno del cortile ed è formata da un corpo principale a due piani con copertura a padiglione e da un corpo secondario, più basso, destinato a scuderia per il ricovero dei cavalli.

L’edificio ha uno zoccolo in pietra realizzato in trachite locale. La restante parte del muro è intonacata a calce con le finestre incorniciate alla sommità da un architrave. Si accede attraverso alcuni scalini in pietra.

La caserma vista dall'alto
La caserma vista dall’alto

All’interno si può intuire quella che era la vita di quel pugno di carabinieri a cavallo a presidio di quell’avamposto. Nell’arco del corridoio d’ingresso campeggia il motto “col cuore oltre l’ostacolo” sormontato dal simbolo con la fiamma dei Carabinieri, risalente al Ventennio. Sulla parete accanto un’altra scritta: “si Deus cherede e sos carabineris [du permittinti] ” (se Dio vuole e i carabinieri lo permettono, la seconda parte della frase si lascia intuire).

Superato il breve corridoio si accede all’atrio centrale di doppia altezza illuminato da un lucernario sul tetto a padiglione. Da alcune fratture passano decine di piccioni che hanno imbrattato lo spazio centrale dove probabilmente prima di una uscita in campagna si radunavano i carabinieri.
Sulla destra si trova quella che doveva essere la sala mensa, con un’apertura passavivande che la metteva in contatto diretto con la cucina. Quest’ultima è rivestita di mattonelle bianche con un grande camino ad angolo. Ancora una piccola e stretta latrina e alcune stanze con dipinte alcune immagini, tra le quali si fa notare ancora oggi quella di un carabiniere.

DSCN9997Attraverso una scala in legno con balaustra in ferro si accede al ballatoio, che si affaccia nella sala sottostante. Nel piano superiore vi sono le camerate come indicato da un cartello posto all’inizio delle scale.

Le scuderie addossate al corpo caserma hanno incastrate alla parete le mangiatoie in pietra trachitica. All’interno del cortile della caserma si trova una cisterna scavata nella roccia con l’imboccatura in pietra. Il cavallo, in queste regioni, all’epoca decisamente mal servite da strade carrabili, costituiva il mezzo di trasporto più efficace se non l’unico.

Nella relazione storico-artistica della Sovraintendenza Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Cagliari e Oristano si legge che:

“…tutto il compendio, pur in non buone condizioni di conservazione, presenta interesse culturale ai sensi del D.Lgs. 42/2004 in quanto testimonianza di un periodo storico della Sardegna caratterizzato dalla lotta contro il brigantaggio (Banditismo Sardo), estremamente diffuso in queste contrade isolate e contro il quale i presidi dei Carabinieri costituivano l’unico baluardo per contrastare il fenomeno”. “Il bene, inoltre, riveste un certo interesse come testimonianza della tipologia architettonica in uso nelle caserme militari del Ventennio e, pertanto se ne ritiene più che motivato il formale riconoscimento di interesse culturale ai sensi del citato decreto”.

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Tutti i vani di questa storica caserma sono oggi un ricettacolo di rifiuti, di letti e materassi sporchi e laceri, scheletri di divani, tracce di una permanenza forse abbastanza recente di chi ha occupato quel luogo testimone di un passato fatto di una vita dura, di sacrifici e , forse, di paura. Anche se, ci dicono, i carabinieri conoscevano i pastori della zona e non ci sono notizie di scontri o contrasti. Su diversi punti dei muri ci sono segni di colpi di fucile, è vero, ma è probabile che siano opera di qualche cacciatore più che di un assalto di banditi.

Tra le solite decine di scarpe, bottiglie, calendari che fissano date a noi sconosciute e rifiuti vari impastati di fango e sterco, ci prende un po’ di malinconia e dunque usciamo con il belare delle pecore intimorite dalla nostra presenza.

Dove si trova: E’ abbastanza isolata, nella campagna di Lochele, tra Sedilo e Sorradile. La strada più vicina è la SP84. Google Maps

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Ex Orfanotrofio di Iglesias

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Abbandonato dal 1984, era l’orfanotrofio dove venivano ospitati, istruiti e avviati al lavoro gli orfani dei minatori e dei militari a Iglesias. Era gestito dalle suore e a Iglesias circolano da sempre voci di abusi, forse solo voci. Oggi i suoi muri danno spazio a sfoghi adolescenziali e giochi trasgressivi che, proprio in un luogo così, assumono un significato particolare.

Ex orfanotrofio di IglesiasVAI ALLE FOTO
Ex orfanotrofio di Iglesias
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L’ex orfanotrofio di Iglesias, fondato nel 1923 e abbandonato nel 1984, appare oggi come un contenitore-sfogatoio di quelle pulsioni infantili-adolescenziali in cui ci siamo imbattuti tante volte nei cosiddetti “posti abbandonati”. Cosiddetti perché, una volta esaurita la loro funzione originale, questi luoghi diventano sempre qualcos’altro e, per quanto abbandonati, sono spesso molto frequentati e utilizzati. Soprattutto, come in questo caso, quando non sono in mezzo al nulla ma all’interno di una città. L’ex orfanotrofio “Infanzia e patria” si trova infatti un terreno nella periferia di Iglesias, a due passi dall’ospedale. A fianco c’è un supermercato, nel terreno un orto condiviso realizzato da un’associazione di giovani del posto e, oltre ad essere frequentato da proprietari di cani (in compagnia dei loro cani, ovviamente) e cercatori di asparagi, una parte dell’edificio sembra ospitare – o aver ospitato – anche dei senzatetto.

Ma un capitolo a parte merita quel gioioso, infantile, insensato e spesso surreale satanismo di provincia sparso sulle pareti decadenti (nel senso proprio di decadere, di declino, disgregazione) testimonianza della frequentazione del luogo da parte dei giovani di Iglesias. Come già notato altre volte, peraltro proprio in queste zone del sud della Sardegna (Gonnesa, Villaggio Normann ad esempio), sui muri dei posti abbandonati i giovani danno sfogo ai loro impulsi più reconditi e, ormai con un piede dentro l’età adulta, tornano bambini.

Ecco quindi svastiche, simboli pseudosatanici, donne nude, insulti ai bambini morti, confessioni di aver ucciso Dio (già trovate altrove, chissà se è sempre lo stesso omicida), un Padre Pio dalle sembianze falliche, oscenità disegnate alla bell’e meglio, croci rovesciate, insomma tutto il repertorio di quella simpatica e allo stesso tempo disperata necessità di espressione dei giovani sardi di cui abbiamo parlato più volte (vedi anche la nostra sezione di-segni).

Eppure, proprio in un luogo così, questi segni lasciati sui muri diventano qualcosa di più di un semplice diario della noia di provincia. Suonano come l’eco di un dolore passato e sempre presente, almeno dentro di noi.

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Una frase come “bimbi morti bevete il mio piscio” fa riflettere, a prescindere dalle intenzioni dell’anonimo autore che immaginiamo in fase tardo-adolescenziale. E’ quel tipo di crudeltà infantile propria del bambino, che non conosce ancora il bene e il male – o meglio, lo conosce, ma ci gioca come da adulti non ci è più permesso fare –  e che paradossalmente se la prende con i propri simili. Allo stesso tempo manifesta la propria confusione ormonale con la rappresentazione di una donna nuda dalle fattezze inquietanti e la scritta “sado mado troia” e, proprio in corrispondenza di quella che un famoso dipinto di Courbet ricordava essere “l’origine del mondo”, una significativa scritta “nel centro dell’inferno”.

In un’altra stanza, al piano superiore, dove ormai rimane poco, giusto qualche sedia, troviamo una scritta ancora più bella, di una trasgressione semplice, casalinga, cioè “cago la casa”. E quale rivolta più trasgressiva, definitiva e fanciullesca vi viene in mente di una defecazione sul pavimento di casa? Eppure, tra un “dio ti amputo le palle”, una dichiarazione d’amore per la guerra e il gioco di parole “orfano-troio” che accoglie i visitatori all’entrata, sotto, tra i muri scrostati, si scorge DSCN9983qualcos’altro. Vecchi disegni di tutt’altro tipo, mattonelle colorate, innocenti alberelli color pastello, e alcune targhe che ci ricordano cos’era questo edificio, la sua storia, le sue origini, il suo passato.

A Iglesias girano varie voci sull’ex orfanotrofio. In molti sono convinti che qua sia successo qualcosa di oscuro che è meglio non ricordare, qualcosa di orrorifico, inquietante. Si parla di violenze e abusi sui bambini. Le cose però potrebbero essere un po’ meno horror. Ovviamente sui singoli episodi personali non possiamo sapere nulla. Per dirlo chiaramente: oggi non siamo in grado di sapere se qualche schiaffo è volato o se qualche bambino ha subito un abuso. E’ possibile, è probabile… Non lo sappiamo. Ma – stando alle ricerche svolte fin qua – quella dell’orfanotrofio “Infanzia e Patria” non sembra esattamente una storia dell’orrore così come viene raccontata. Anzi: testimonianze alla mano, sembrano esserci più ricordi positivi che negativi.

Il problema è che le informazioni di cui gli stessi abitanti di Iglesias sono a conoscenza sono poche e contrastanti, spesso prive di fonte, e per questo alla fine sono rimaste in giro solo certe voci, forse più suggestive. Ma c’è anche qualcuno che, proprio partendo da queste voci, ha indagato a fondo e, tra interviste ai testimoni – cioè gli ex ospiti dell’orfanotrofio – e ricerche negli archivi, ha scoperta questa inedita storia dell’orfanotrofio “Infanzia e Patria di Iglesias”. Una storia indissolubilmente legata al passato minerario della città e a una particolare famiglia, i Boldetti. Ed è a questo qualcuno, Silvia Floris, che lasciamo la parola. Buona lettura.


 

Breve storia dell’Orfanotrofio “Infanzia e Patria” di Iglesias

di Silvia Floris

img018L’Orfanotrofio “Infanzia e Patria” si colloca in un contesto di sviluppo economico e urbanistico e prosperità culturale verificatosi ad Iglesias nel corso dell’Ottocento e nella seconda metà del Novecento, avvenuto anche ad opera di una delle famiglie più influenti del tempo, che tanto lustro diede alla città: la famiglia Boldetti.

Alla morte del capostipite Giuseppe, le redini delle attività familiari furono prese da Paolo, primogenito di 10 figli, al quale si devono la modernizzazione del Salto di Gessa, la bonifica del suolo in alcune aree malariche, la costituzione di impianti agricoli e zoo-tecnici nei vastissimi terreni posseduti nei quali fu il primo a piantare la vite americana e il potenziamento di Sant’Angelo con la costruzione della chiesetta e della maestosa e lussuosa residenza estiva (“Villa Alice, in onore a sua moglie Alice Rosasco in Boldetti).

Suo fratello Giuseppe, sposato con Caterina Saccomanno, si prodigò invece per la fondazione del Liceo Scientifico Giorgio Asproni e la scuola di ginnastica Jolao a seguito del potenziamento dell’impianto sportivo di Monteponi.

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Come da tradizione di quelli che erano i valori borghesi dell’epoca, mentre i loro mariti si occupavano di affari, le donne si dedicavano alla beneficenza. Fu così che le due cognate, Alice e Caterina, che già partecipavano alla periodica donazione ai poveri di pane e carne cacciata presso la chiesa delle anime in via Azuni, fondarono l’associazione femminile “Infanzia e Patria” con lo scopo di istituire un orfanotrofio, su suggerimento della Croce Rossa Americana.

img014Il progetto fu presentato il 25 marzo 1918 durante una serata di beneficenza al Teatro Elettra, durante la quale il dottor Tornù spiegò i costi e gli intenti che erano quelli di offrire alloggio, istruzione e inserimento nel mondo del lavoro agli orfani dei minatori e dei militari (la prima guerra mondiale si è da poco conclusa).

Alice Boldetti, Desolina Crotta e Donna Ernestina Rodriguez donarono ciascuna la somma di 10.000 lire; altre 10.000 furono donate dalla Croce Rossa e ulteriori 3.000 furono raccolte durante tre momenti di tè di beneficenza al Circolo di Lettura sito davanti al teatro. In seguito altre donazioni furono rilasciate dalla “Federazione nazionale industriali” (50.000 lire), dal comune (4.000 lire) e dal Liceo G.Asproni (8.000 lire). Il comune, ancora, si impegnava a donare lire 500.000 annue e le miniere lire 100.000 annue.

img020Nello statuto organico possiamo leggere, velocemente, che si prevedeva l’accoglienza ai bambini dai quattro anni in su, non necessariamente orfani ma anche appartenenti a famiglie non abbienti che non potevano provvedere a loro. Non erano ammessi bambini non vaccinati o che avessero sofferto il vaiolo. Ai ricoverati sarebbe stata impartita un’istruzione elementare e una preparazione professionale in base alle norme stabilite dalle leggi vigenti. Secondo l’articolo 6 l’educazione avrebbe dovuto riguardare anche l’igiene e l’economia domestica; alle donne sarebbero stati impartiti insegnamenti sul buon governo della casa e sull’abitudine “alla sincerità, al rispetto reciproco, all’ordine, all’amore per il lavoro e alla pulizia”.

Nell’articolo 5 si specifica come avrebbero dovuto lavorare nell’istituto educatori professionali con titoli e requisiti e che si sarebbero dovute seguire e assecondare le attitudini e le aspirazioni dei ragazzi. Ancora, nell’articolo 7 si specifica la non disparità di trattamento.

I ragazzi venivano licenziati ai 15 anni e le ragazze ai 16.

img017A monitorare e vigilare sull’operato nell’Orfanotrofio era stata adibita una commissione (che si riuniva mensilmente per valutare la situazione pedagogica ed economica e stendeva relazioni dettagliate) composta dai maggiori esponenti politici, industriali e dell’alta società, tra i quali spiccano il sindaco Angelo Corsi, l’avvocato Pintus-Pabis, l’ingegner Wright oltre che vari Rodriguez, Binetti e Boldetti. Il presidente eletta dall’associazione femminile era Zeffira Negri, moglie del sottoprefetto di Iglesias.

Il regolamento interno stabiliva che il direttore, nonché economo e censore, dovesse essere un sacerdote, al quale, come a tutti gli assistenti, si offriva vitto e alloggio. La cucina, la biancheria, la pulizia e l’istruzione era affidata alle suore, guidate dalla madre superiora.

Tra gli articoli, contrariamente a quella legenda che ha poi avvolto l’orfanotrofio ormai abbandonato e in totale decadenza, spiccano il divieto di atti violenti anche solo verbali (art.10) e il doversi attenere ai “mezzi disciplinari conformi alla sana pedagogia” (art.9)

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La preparazione professionale, in vista di un successivo inserimento nel mondo del lavoro, era incentrata sulle attività “in armonia con l’organizzazione industriale iglesiente” che necessitava di meccanici, elettricisti, falegnami, sarti ecc. Al lavoro teorico seguiva quello pratico che poteva avvenire all’interno della struttura stessa (dove si producevano prodotti per la vendita in città) o in bottega. In ogni caso, 2/3 dello stipendio dei ragazzi veniva trattenuto dall’Orfanotrofio per il mantenimento dell’orfano stesso in tutto quello che gli fosse necessario ma 1/3 veniva invece conservato ogni mese nel suo libretto postale, il quale gli sarebbe stato consegnato ad avvenuto licenziamento dall’istituto.

Questo significa che questi ragazzi venivano raccolti dalla strada, salvati da malattie, criminalità, povertà, protetti, seguiti, istruiti e rilasciati al mondo con una preparazione professionale e un piccolo patrimonio conservato nel tempo, per la propria sussistenza. Il che, se pensiamo che tutto questo è avvenuto un secolo fa e se guardiamo allo stato del sistema educativo italiano oggi, ha dell’incredibile e costituisce un caso talmente avanguardistico che sarebbe “avanti” persino ai giorni nostri.

Spostando l’analisi da un punto di vista più prettamente pedagogico notiamo ancora qualcosa di ben distante dagli atti di vessazione delle suore nei confronti degli orfani, idea che riempie l’immaginario collettivo iglesiente da decenni: “i mezzi e i metodi d’educazione saranno quelli adottati negli istituti salesiani dal grande educatore Don Bosco”. Per questo fu stipulata una convenzione con la Piccola casa della divina provvidenza delle suore Vincenziane di Cagliari.

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I metodi “salesiani” si rifanno agli insegnamenti di San Francesco di Sales che fu anche direttore spirituale di San Vincenzo Paoli, santo protettore dell’ordine delle suore in questione. Anche San Giovanni Bosco, che da sacerdote spese la sua vita per i giovani disagiati di Torino, si era ispirato a Sales.

Quindi il filo conduttore della prassi pedagogica dell’istituto è molto chiaro e definito. Possiamo così sintetizzarlo: abbandono dei metodi repressivi, sostituiti da quelli preventivi, “l’educatore vigila con amore per impedire ai giovani di commettere mancanze, mettendoli nelle condizioni ottimali per raggiungere uno sviluppo armonico”. L’anima della pedagogia salesiana è la carità che porta l’educatore ad agire con amore, cordialità e affetto per far capire al ragazzo di essere amato. Solo chi sa di essere amato può amare.

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A San Vincenzo De Paoli si deve invece una riforma teorica dell’assistenza sociale con la sostituzione del paradigma dell’elemosina (indiscriminata, saltuaria e spesso socialmente dannosa) con quello del “soccorso ordinato” incentrato sul lavoro come dovere e possibilità di realizzazione e sull’attenzione ai problemi spirituali e non solo materiali delle persone.

Dai documenti conservati all’Archivio Storico di Iglesias scorgiamo successivi riferimenti alle teorie pedagogiche di Montessori, Agazzi e Froebel, per cui, a parte qualche caso isolato che possiamo anche ipotizzare e di cui non abbiamo alcuna documentazione, viene veramente difficile pensare che la situazione all’Orfanotrofio Infanzia e Patria di Iglesias fosse degna di un film horror, come un po’ tutti pensano in città. Anzi, stando alle documentazioni e alle testimonianze dirette di ex ricoverati, possiamo senz’altro affermare che fosse un esempio straordinario di assistenza sociale e pedagogica dal quale le strutture odierne sono ancora molto lontane.

I problemi dell’istituto saranno semmai, col passare dei decenni, di tipo economico. Convertito intorno agli anni 70 in centro di aggregazione giovanile che permetteva l’ingresso anche ai non ricoverati, dovette chiudere per sempre i suoi portoni nel 1984, schiacciato dal peso fiscale ed economico di un territorio ormai in declino.

Silvia Floris


Dove si trova: In un terreno dentro Iglesias, in via Cattaneo, vicino all’ospedale. Google Maps.

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Centro Radio o Centro Trasmissioni 1 e 2 di Rudas e Olmedo

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Cosa resta della Guerra Fredda?

Siamo nei dintorni di Olmedo, nell’ancora esistente provincia di Sassari. Oggi Comune in piena espansione edilizia grazie alla sua posizione baricentrica nella rete metropolitana sassarese, ieri base nostrana della Guerra Fredda e componente nevralgico dell’operazione stay-behind Gladio.

DSCF8749Le principali strade d’accesso al paese erano infatti presidiate, seppur con discrezione, dalle due strutture afferenti al Centro Radio o Centro Trasmissioni. Importanti centri di comunicazione per qualche decennio, tanto da risultare misteriosamente invisibili ancora nelle foto aeree del 1998-99. Ma comunque sorpassati dalle tecnologie satellitari (di cui il Capo di Sopra ospita un’altra illustre vittima: la base USAF del Monte Limbara), oltre che dall’incruenta sconfitta del comunismo sovietico.

Il simbolo del complesso, la grande antenna costellata da lucine rosse, è stato da tempo demolito, lasciando solo strutture anonime come uffici, alloggi e centraline elettriche. Alcune murate, come a Rudas, altre in balia di stormi di piccioni, come all’incrocio fra l’ex-SS291 e la SP19. Austerità militare non priva però di un romantico pozzetto e di un bel barbecue da giardino, in una reale comunanza di valori con l’alleato atlantista. All’ingresso la torre di guardia e il filo spinato, ora inoffensivi, ci ricordano che ogni barriera è costituita solo dagli uomini che la presidiano.

Dopo un passaggio ai Servizi del Raggruppamento Unità Difesa, e inventariato nei beni del demanio militare, è oggi del tutto indifferente se la struttura sia stata dismessa o meno, e a quale ente sia stata assegnata, essendo il destino sempre identico: l’abbandono.

Gli unici militari ancora interessati al suo presidio sembrano quelli della Benemerita, che nel 2012 hanno arrestato a più riprese sia rumeni che turritani intenti in località Panzone al furto di materiali. O a una beffarda conquista popolare fuori tempo massimo: giudicando da ciò che resta, non sembra che a vincere sia stato l’Occidente.

Come da tradizione, solo pastori e allevatori frequentano questi luoghi. E viene da chiedersi quanti ce ne siano ancora in Sardegna da riuscire a okkupare quasi ogni abbandono, come nemmeno la più invasiva delle specie.

Cosa resta dunque della Guerra Fredda? Montagne di guano.

Dove si trova: nei dintorni di Olmedo, lungo la SP19. Google Maps.

Foto Olmedo

Foto Rudas

 

Ex Semaforo di Capo Ferro

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Strano posto, la Costa Smeralda: un’incessante passerella di oltre 50 chilometri di resort, spiagge affollate, villaggi e porti turistici all’insegna del lusso estivo più sfrenato, alternati a litoranei selvaggi e incontaminati, decadenti abbandoni e macerie testimoni di recenti conflitti.

L’ex Semaforo di Capo Ferro non fa eccezione a questa bizzarra consuetudine, ancora più evidente nei desolati mesi invernali. Fu edificato alla fine del XIX secolo come parte integrante della rete di segnalazione marittima da terra, con funzione di supporto per le navi dirette da est verso La Maddalena. Strutturalmente è quasi identico al ben più celebre semaforo “gemello” di Capo Figari con cui, nonostante le passate glorie marconiane, ha condiviso la medesima sorte finale.

Costruito su tre piani ora pericolanti, conserva ancora l’ampia sala centrale e l’antenna semaforica da cui spuntano ingranaggi corrosi dalla salsedine. Ma dove non hanno agito il tempo, il vento e i crolli, la mano dell’uomo ha completato l’opera di decadimento con caratteristici dettagli ornamentali tra cui spiccano blocchetti di cemento alle finestre e un’improbabile e surreale serie di versi latini sul lato fronte mare.

La cornice dove riposa questo reduce del passato è la sommità di un aspro e ventoso promontorio a due passi dalla capitale spirituale della Costa, Porto Cervo, di cui peraltro la  sinuosità del litorale non fa percepire la vicinanza. Una dimensione a sé stante che dà l’illusione di assoluto isolamento, in cui i ritmi martellanti delle discoteche vengono sopraffatti dal vento, le paradisiache e sfavillanti pietre preziose si trasformano in opaco granito e la moderna Costa Smeralda torna per un attimo a identificarsi con gli antichi Monti di mola.

Dove si trova: nel Comune di Arzachena, Google Maps.

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Fortezza di Baragge

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Un’inquietante e misteriosa cittadella militare abbandonata costruita per difendere la Sardegna da un’invasione francese

DSC_4379Fra le tante strutture militari che costellano la Sardegna la fortezza di Baragge è senza dubbio la più misteriosa e inquietante. La storia di questo imponente bastione è indissolubilmente legata alla fondazione di Palau e alla batteria di Capo d’Orso, con cui condivideva l’origine e ricopriva il ruolo di difesa da un’ipotetica invasione dell’isola da parte di truppe straniere, specie francesi. Una minaccia che oggi può far sorridere suggerendo paranoie fantageopolitiche, ma che nei turbolenti XVIII e XIX secolo era presa in serissima considerazione dagli impettiti strateghi del Regio Esercito. Mentre Capo d’Orso avrebbe dovuto fronteggiare gli assalti marittimi, il compito di Baragge era la difesa da incursioni provenienti dall’entroterra.

I resoconti militari dell’epoca testimoniano quanto Baragge fosse ben difesa e attrezzata: costruita nel 1893, poteva contare su 180 uomini di stanza, una trentina di pezzi d’artiglieria pesante, casermette, depositi di munizioni, magazzini e persino prigioni. Tuttavia, ebbe una breve vita che anche qui si è dovuta arrendere al progresso: solo pochi decenni dopo la sua nascita divenne infatti amaramente evidente che qualsiasi velivolo da poco introdotto avrebbe potuto individuare e attaccare la fortezza da alte quote.

Nell’intervallo tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, venendo meno le possibilità di un’invasione di terra e rendendosi necessario un maggiore supporto difensivo alla base navale di La Maddalena, Baragge venne progressivamente dismessa e sostituita da una rete frammentata e capillare di batterie d’artiglieria costiera di piccole dimensioni e meglio mimetizzate dall’alto. Durante l’ultimo conflitto ebbe un ruolo marginale di copertura antiaerea.

Da terra comunque Baragge sembra non esistere: ben integrata sulla sommità dell’omonima collina, la fortezza risulta invisibile anche a un occhio attento. Gli unici segni della sua presenza sono un grosso cancello e una sparuta recinzione di filo spinato in gran parte corrosa dalla ruggine. Il suo nome è persino indicato da un cartello stradale che sembra condurre da nessuna parte, se non a un punto panoramico.

Panorama Baragge

Ma è sufficiente inerpicarsi sul terrapieno che la circonda per vederla apparire nella sua complessità: un’estesa e spettrale cittadella militare in rovina, delimitata da un profondo fossato e dal cui nucleo centrale spuntano cupole, camminamenti, passerelle, gallerie, alberi, rovi, edifici diroccati e le immancabili gabbie di Faraday deformate.

Esplorare i suoi resti e soprattutto la vasta e labirintica rete di cunicoli sotterranei trasmette una sensazione di inquietudine e irrazionale pericolo, complice forse l’assoluto silenzio e l’oscurità serale che avanza. Questo frammento di Ottocento giunto fino a noi quasi intatto sarà anche cronologicamente vicino, ma sembra in realtà provenire da un’epoca e da una civiltà remotissime e sconosciute: un’irreale montagna della follia, un incubo grigio a due passi da un azzurro mare da sogno.

Dove si trova: lungo la SP121, sulle colline sovrastanti Palau. Google Maps

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Colonia montana di Sant’Antioco, Scano Montiferro

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Le foreste del Montiferru nascondono ciò che resta di una vecchia colonia montana

DSC_4571“Un paradiso verde“: così, ormai da quindici anni, le amministrazioni locali del Montiferru sperano possa tramutarsi la foresta di Sant’Antioco. E sicuramente era il medesimo avvenire che il vecchio vescovo di Bosa, Monsignor Francesco Spanedda, aveva immaginato per questo fitto bosco ricevuto dalla Curia nei primi anni ’60, dopo una donazione di devoti cittadini.

Vorremmo avere anche noi lo stesso ottimismo ma, scrutando fra gli alberi, tutto ciò che riusciamo impietosamente a intravedere sono solo ruderi, macerie e scheletri. Tutto è dominato dalla vecchia colonia montana, costruita in quel periodo e attiva fino agli anni Ottanta, oggi abbandonata a se stessa e spogliata da qualunque arredo o infisso. Per quasi tre decenni i suoi 900 metri quadri accolsero e ospitarono centinaia di bambini delle famiglie meno agiate provenienti da gran parte dell’isola, com’era consuetudine all’epoca. Buone opere che nelle intenzioni avrebbero dovuto sfidare i secoli, ma che nella realtà sono cadute in rovina nel giro di una generazione.

L’aspetto è quello di un inquietante casermone a due piani che sorge su una collina alberata, isolato dal mondo esterno da una giungla di rovi e sprofondato nel silenzio: non esattamente qualcosa di paradisiaco, sepolto da polvere, crolli, calcinacci e vandalismi di ogni tipo.

Nel cortile antistante, come ogni struttura infantile abbandonata che si rispetti, un parco giochi arrugginito attende ancora che i pargoli vengano a sé. Ma i bambini di un tempo, ormai cresciuti, ritornano nella colonia come per un rito iniziatico e non c’è più spazio per grida festose: solo un diluvio di scritte adolescenziali e scorribande goliardiche in cerca di effimere trasgressioni, un enorme diario delle scuole medie a cielo aperto.

Almeno questa volta i muri possono parlare e, tra un richiamo sessuale e una chiamata da telefono fisso, fanno beffardamente capolino i segni del passato: le ingenue e variopinte insegne del salone da pranzo e una rappresentazione evangelica, quest’ultima inspiegabilmente quasi risparmiata dalla selvaggia furia iconoclasta dei finesettimana alcolici.

Dove si trova: nel parco delle sorgenti di Sant’Antioco, tra la SP63 e la SP78. Google Maps

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Albergo ESIT Ortobene, Nuoro

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Un enorme albergo montano dall’aspetto post-apocalittico

Siamo sulla montagna sacra dell’Atene sarda, una grande foresta dove si staglia il Protettore della città. Non stiamo parlando della statua giubilare, e nemmeno dello stuolo di antenne: a proteggere Nuoro è l’imponente mole dell’Albergo ESIT, Ente Sardo Industrie Turistiche.

Glorioso carrozzone regionale che tanto ha dato all’isola, lasciando una lunga scia di abbandoni, da Bosa a San Leonardo, da Villacidro a Santa Teresa, da Tonara alla Maddalena, da Alghero a Cuglieri. L’Hotel ESIT di Nuoro, costruito negli anni cinquanta, fu presto chiuso nel 1970 per diventare una scuola alberghiera dell’EnAP, l’Ente Addestramento Professionale altrettanto celebre per simili meriti paesaggistici.

E anche a Nuoro impossibile non notarlo, difficile non incontrarlo durante una delle sagre del Redentore in cui devoti e turisti si spargono ovunque in cerca di refrigerio e parcheggio. Un abbandono tanto ingombrante e con così poca speranza che persino i comitati popolari qui prendono nomi come Ultima spiaggia, a 25 chilometri dalla costa.

L’ESIT, il cui stemma dorato brilla ancora sulle porte a vetri, si presenta come una creatura bifronte: verso sud colori chiari, magnifico panorama, trionfa la luce. Verso nord uno stretto terrapieno, colmo di locali di servizio e rifiuti: le pareti dell’albergo non sembrano più appartenere a questo mondo, il loro verde muffa così profondo e antico trasporta a dopo l’apocalisse. Ora tutto acquista senso: l’albergo non è stato abbandonato, ma tutti gli accessi sono stati chiusi dall’interno con delle barricate.

Arredi divelti, armadi, scaffali, tutto è servito per difendere porte e finestre da quella che è chiaro essere stata una pandemia zombi. Una consapevolezza irrompe nelle nostre menti: i suoi occupanti hanno cercato di salvarsi da chi voleva entrare, da chi vagava per l’isola, da … noi umani?

Dove si trova: sulla sommità del monte Ortobene, in località Nostra Signora del Monte. Google Maps

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Zona industriale di Macomer

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caseificio_albano_dsc_4660I luoghi abbandonati della periferia di Macomer raccontano ciò che resta di una piccola rivoluzione industriale

Un’intera periferia industriale abbandonata: è tutto ciò che resta del boom economico che per quasi un secolo ha lambito Macomer, le cui onde sembrano ormai essersi ritirate lasciandosi dietro un deserto di cemento. Cittadina ai piedi della catena del Marghine, per una serie di fortunate coincidenze geografiche, logistiche e climatiche non passò inosservata agli occhi dei primi imprenditori locali e stranieri protagonisti degli albori dell’era industriale sarda.

Il primo fra tutti non poteva non essere l’inglese Benjamin Piercy, che solo pochi chilometri più a nord, nell’altopiano di Campeda, aveva insediato la sua residenza e il suo principale centro produttivo agropastorale. Già punto di passaggio del collegamento stradale Sassari-Cagliari, Macomer venne infatti scelta come snodo tra la medesima e nascente linea ferroviaria e la tratta trasversale Nuoro-Bosa, per cui era stato edificato il glorioso Albergo delle Ferrovie: siamo nel 1880.

Anche i fattori atmosferici ebbero un’importanza primaria nel dare a Macomer il proverbiale momento di gloria: il suo clima mite, secco e ventoso, ideale sia per la stagionatura dei formaggi che per la lavorazione della lana. Inoltre, la presenza di un buon terreno di pascolo influiva positivamente sulla qualità del latte prodotto. Voci e informazioni si sparsero oltre il Tirreno, iniziarono i sopralluoghi e fu così che un gruppo di imprenditori provenienti da varie regioni trasformarono i cinque ettari della periferia nord del paese in una fiorente zona industriale casearia. La “rocca del nido del corvo”, questo il nome del costone, venne scelta sia per l’adiacenza alla stazione ferroviaria che per la posizione rialzata rispetto al sottostante fiume S’adde, in modo da facilitarvi gli scarichi dei rifiuti di lavorazione (cosa oggi impensabile).

Uno dopo l’altro, i protagonisti di questa piccola rivoluzione industriale, alcuni imparentati tra loro, si stabilirono in quello che lo scrittore Elio Vittorini, con l’ottimismo tipico di quegli anni, definì “l’equatore della Sardegna”. Superate le iniziali diffidenze dovute all’assenza di una visione industriale locale, Macomer ebbe un improvviso sviluppo e una rapida espansione demografica e urbanistica, con possibilità di lavoro per centinaia di abitanti del circondario. Grossi nomi come Bertolli, Locatelli, Bozzano, Galbani, Polenghi, Ambriola, Tazza, Castelli e Cannavale, alcuni noti ancora oggi, si succedettero in questo angolo del Marghine. Ai caseifici, ben undici, si aggiunsero presto impianti di produzione di tessuti, birra e calzature. Le storie oggi dimenticate di quegli anni a cavallo tra i due secoli, talora paragonabili a vere e proprie saghe familiari, non possono non affascinarci.

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Dopo Piercy, tra i primi personaggi che incontriamo spiccano Angelo e Giovanni Battista Bozzano, figli dell’armatore e commerciante ligure Davide, che già prima del 1892 inaugurarono le attività casearie nel Marghine; successivamente diedero il via ad una rete di esportazioni culminata con l’iscrizione della Società alla Camera di Commercio di New York nel 1908. Le attività proseguirono sotto la guida dei successori Luigi e Giuseppe fino al 1958, con la fusione con la Dalmasso e la Società Romana ICPA (Bertolli) che diede vita alla BDR (Bozzano-Dalmasso-Romana), attiva fino alla fine degli anni ’70.

Seguì quindi l’arrivo di Gustavo Salmon, banchiere livornese di origini ebraiche ed emigrato dall’Algeria, che nel 1895 diede vita a un caseificio con la cifra di 270.000 lire in marenghi d’oro.

 

Caseificio Albano

Venne poi il turno di Vincenzo Albano, imprenditore lucano già fautore di una importante esportazione di pecorino negli Stati Uniti, che proseguì una volta aperto lo stabilimento di Macomer, nel 1905. Il caseificio Albano non ebbe vita facile: ubicato nell’odierna via Sulis, partì da ottime premesse con la creazione di un inverosimile ma efficientissimo triangolo commerciale tra Napoli, Macomer e New York e riuscì a mantenere una fiorente attività sfidando una sfortunata alternanza di lutti familiari e crisi economiche. Nel giro di quindici, infatti, l’azienda perse prematuramente i figli Salvatore e Francesco e, infine, il suo fondatore; iniziarono inoltre le prime lotte sociali con i pastori del circondario, che accusavano gli Albano di eccessivo sfruttamento e capitalizzazione dei loro prodotti.

È il 1920: la nuora di Vincenzo, Teresa De Rosa, da quel momento nota ai locali come “la vedova”, non si perse d’animo e, pur con tre figli piccoli a carico, prese in mano le redini dell’azienda. Cinque anni più tardi, su espressa richiesta, sbarcherà a Macomer anche il cognato e imprenditore Michele Di Trani con cui darà il via alla società Albano-Di Trani. La vedova Albano, come racconta il figlio Salvatore, “non si limita ad affiancare il socio Michele Di Trani nel lavoro. Si occupa anche di opere benefiche. Fa ricostruire l’altare maggiore di San Pantaleo, provvede a fornire la parrocchia di un oratorio, si adopera in tante occasioni ad alleviare le sofferenze altrui”.

Un’altra dura prova era alle porte: la grande crisi economica americana del 1929 e la svalutazione del dollaro del 1933 limitarono notevolmente i traffici verso New York assestando un grave colpo al caseificio, che saprà comunque rimettersi in piedi e riprendere le esportazioni pochi anni più tardi. Anche il secondo conflitto mondiale lascia il segno nei rapporti commerciali con gli USA, comunque ripristinati nell’immediato dopoguerra. Ma le difficoltà non finiscono qui: nel 1947 avviene la separazione tra la Albano e la Di Trani, e fra quell’anno e il 1950 la vedova perde due dei suoi tre figli, impegnati nella gestione commerciale con gli USA. Il sogno americano si spegne e anche la De Rosa muore nel 1959: Salvatore, unico figlio superstite, riuscirà a tenere alto il nome della famiglia fino al 1979, data della chiusura e dell’abbandono del caseificio sia per anzianità che per la crescente minaccia della criminalità organizzata e dei sequestri di persona. L’ultimo direttore della gloriosa Albano si trasferì con la famiglia a Roma, non prima di essersi impegnato a ricollocare gli oltre cento ex-dipendenti presso altre aziende casearie locali.

 

Caseificio Di Trani

Dalla scissione con la Albano, nel settembre 1947 sorse il caseificio Di Trani, nell’odierna via Cavour. Il fondatore ampliò le esportazioni anche in Francia e Canada, e dopo la sua scomparsa nel 1958 il genero Ferdinando Melchiorre si occupò della gestione fino al 1980, con la chiusura per limiti di età e assenza di eredi maschi. I suoi cento operai e le moderne e sofisticate apparecchiature introdotte non furono sufficienti a salvare il caseificio dall’inesorabile abbandono. Oggi alcuni edifici del complesso sono parzialmente utilizzati come deposito.

 

Caseificio Dalmasso

Sempre su via Cavour si affaccia il caseificio Dalmasso. Fondato tra il 1937 e 1938 dall’imprenditore cagliaritano Lucrezio Dalmasso, proseguì l’attività per diversi decenni sotto la guida del figlio Ennio, fino alla fusione nella suddetta BDR e alla successiva chiusura nei tardi anni ’70. L’imponente struttura si estende per oltre 2.000 metri quadri ed è sviluppata su tre piani: nel pianterreno vi erano la sede amministrativa e il caseificio vero e proprio, mentre i due piani seminterrati, esposti a nord e riparati dalla luce solare, erano adibiti a deposito per stagionatura, come testimonia l’estesa rete di scaffali in legno ancora visibile dalle finestre.

 

Caseificio Centola

A poca distanza, lungo la ferrovia, emergono i ruderi del caseificio Centola. Anch’esso è un reduce dell’epoca, e prende il nome dal commerciante lucano Domenico Centola che lo edificò nel 1908. Anche qui non mancarono le esportazioni oltreoceano, sia pure in misura minore rispetto agli Albano con cui tuttavia venne instaurato un rapporto di stretta collaborazione. L’attività andò avanti fino al 1938, anno della morte del fondatore, dopo la quale subentrò per un decennio Giuseppe Scarpati di Meta di Sorrento. Otto anni più tardi, nel 1956, lo stabilimento smise di brillare di luce propria ed entrò sotto l’egida della società Bozzano, fino alla chiusura definitiva nel 1979.

 

Lanificio ALAS

Resta infine il complesso del lanificio ALAS, ultimo tassello del mosaico di edifici del quartiere, ma non certo secondario per importanza. Nel 1933, in pieno regime fascista, venne introdotta la lavorazione industriale dell’enorme quantità lana e dell’orbace prodotte nella zona, da sempre confinata in ambito familiare. Macomer divenne il primo centro di sperimentazione regionale “per lo sfruttamento autarchico della lana sarda”, recitano le cronache dell’epoca, con la creazione dapprima della SCAI (Società Commercializzazione per l’Artigianato Italia), e successivamente dell’ALAS (Anonima LAniera Sarda), che divenne operativa tra il 1939 e il 1940.

Forte di un grande stabilimento esteso su più livelli per un totale di 10.000 metri quadri, sempre con nucleo su via Cavour su cui è ancora visibile un’avveniristica passerella, ebbe il gravoso compito di sostenere adeguatamente le forniture di coperte e materassi per il Regio Esercito. Nonostante le ovvie difficoltà del periodo bellico, la fabbrica riuscì pienamente nell’intento, in maniera perfino paradossale rispetto allo sfacelo delle industrie sul restante territorio nazionale: i vecchi registri riportano la capacità di lavaggio di 1.800 tonnellate di lana grezza e la conseguente produzione di oltre 240.000 metri quadri di tessuto (panni, divise, coperte, abbigliamenti militari come le camicie nere), grazie all’introduzione di 28 modernissimi telai meccanici e la manodopera di 600 operai, soprattutto donne. Nel 1942 l’ALAS ricevette anche la visita ufficiale di Mussolini, mentre l’anno successivo subì danni marginali durante un bombardamento alleato.

Concluse finalmente le ostilità, l’ALAS venne parzialmente riconvertita ad uso civile e tra il 1947 e il 1950 vi furono numerose controversie dirigenziali e amministrative. Negli anni successivi l’incombente spettro dei debiti e dei licenziamenti diede il via a una lunga serie di scioperi operai, culminata con la crisi del 1957-1958 in cui, dopo dieci giorni di occupazione, la Regione decise di intervenire economicamente per salvare l’azienda. Seguirono tre decenni di alterne vicissitudini, in costante bilico tra utili e perdite, al termine dei quali lo stabilimento venne trasferito pochi chilometri più a sud, a Tossilo, e rinominato come Texal. È il 1987, e l’azienda nata dalle ceneri dell’ALAS resisterà fino al 2001.


Termina qui la nostra carrellata sulla Macomer che fu. Oggi non ci sono superstiti in attività della prima generazione di fabbriche, mentre la seconda e la terza si insediarono nelle nuove e più versatili zone industriali di Tossilo e Bonu Trau, dove tuttora sopravvivono a stento dopo aver subito i durissimi colpi della recente crisi economica e di infelici scelte amministrative.

Non si può più parlare di equatore sardo né tantomeno di “Lingotto nuragica”, com’è stato proposto nell’ultima ventata di ottimismo dei primi anni 2000, oggi lontanissima. Al momento sono in stallo anche i lavori di riqualificazione e restauro di alcuni edifici, in un surreale sovrapporsi di abbandoni di diverse epoche. Percorrendo la deserta via Cavour, più che il Lingotto o le sfavillanti luci della Grande Mela, il pensiero rievoca una piccola Detroit, con le sue fabbriche in frantumi e le sue ormai sterminate distese di rottami industriali e sociali.

Nessun passante o traffico automobilistico, finestre che sbattono, impalcature arrugginite e cigolanti, gru immobili: la decadenza si è prepotentemente impadronita di quella che era la culla dell’industria isolana. Intrufolandosi in uno stretto vicolo che conduce sull’orlo del costone, si abbandona di colpo la città e ci si ritrova sul retro degli edifici ormai invasi da edere e rovi, simili a una barocca e bizzarra fortezza. Osserviamo per un attimo la SS131 che, dall’altra parte della valle, ha preso il largo da Macomer e fa scorrere indifferente il suo traffico. Ci dirigiamo di nuovo verso la rocca dove i corvi e soprattutto i piccioni sono tornati a fare il nido e a razzolare tra corpi e macerie, come nel più classico dei campi di battaglia.

Dove si trova: nella periferia nord di Macomer, lungo via Sulis, via Cavour e corso Umberto I. Google Maps

Su Dominariu

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L’intricata storia di un insediamento agricolo dove nel 1800 si allevavano i cavalli del re e di una colonia estiva oggi abitata dai pipistrelli.

I salti del Sarcidano, benché fertili, boscosi e ricchi di sorgenti d’acqua, restarono per molto tempo incolti e spopolati. Alla fine del XVIII secolo, durante il governo del Regno di Sardegna, furono adottati dei provvedimenti per incrementare l’aumento della popolazione sarda dando vita alla nascita di nuovi paesi. A questo proposito avrebbe dovuto rispondere anche la colonizzazione dei salti del Sarcidano con la fondazione della borgata di Santa Sofia.

dominariu_dscn0289Il villaggio venne fondato nel 1767. Il “salto” fu affidato a Salvatore Lostia, il quale ottenne il titolo di conte di Santa Sofia con l’obbligo, nel termine di dieci anni, di stabilirvi 40 famiglie locali e di costruirvi, a sue spese, una chiesa da affidare all’officiatura pastorale dell’Arcivescovo di Oristano.

Il nuovo centro, chiamato Villanova di Sarcidano, posto sotto il patronato di Santa Sofia, era però isolato, totalmente priva di strade, senza assistenza religiosa, al centro di contese fra il feudatario e l’arcivescovo, per cui andò avanti con molte difficoltà.

Fu riorganizzato dal Lostia per ben tre volte, dal momento che, per interessi pascolativi, venne ripetutamente distrutto dai pastori dei paesi limitrofi. Nel 1796, le famiglie si erano ridotte a nove, e nel 1799, appena a quattro.

Un ulteriore tentativo di colonizzazione fu riproposto dal figlio del Lostia nel 1806, ma anche in quella circostanza i coloni abbandonarono il villaggio. Nel complesso, i tentativi rivolti alla creazione del villaggio di Santa Sofia, dal 1767 al 1808, furono ben cinque.

dominariu_dscn0302Nel 1800 in Su Dominariu venivano allevati i cavalli che andavano alla cavalleria regia. Quella del Sarcidano è una tra le razze più antiche della Sardegna il cui patrimonio genetico è rimasto praticamente immutato sino ad oggi.

Nel secondo dopoguerra, grazie all’attività di bonifica e di riforma dell’ETFAS (Ente per la trasformazione fondiaria della Sardegna) le terre di Santa Sofia sono state completamente dissodate e risanate. Oggi la borgata è costituita da 32 famiglie con un totale di 100 abitanti, vi si svolge ancora l’attività agricola, con l’integrazione di altri settori produttivi.

Nel territorio di Santa Sofia è presente il rilevante complesso di Su Dominariu, parte del quale è stato costruito nel 1918-1920 dall’Istituto dei Fondi Rustici “Is Milanesos” e comprende stalle e abitazioni per circa 1900 mq. costituenti un quadrilatero di circa 8.000 mq. protetto dai venti freddi di maestrale. L’azienda modello aveva ben 600 cavalli, 350 vacche e 1600 capre.

L’Istituto, nella seconda metà degli anni Trenta, cedette l’azienda a Lucrezio Dalmasso (imprenditore cagliaritano attivo anche a Macomer) che non dimostrò, però, altrettanta competenza nella cura del cavalli. Nei pascoli introdusse un migliaio di pecore, e i cavalli ne risentirono.

dominariu_dscn0253Attualmente i cavalli sono del Comune di Laconi che li detiene nei terreni di Forestas tra Funtana Mela e l’altopiano di Santa Sofia.

Oggi il complesso è completamente abbandonato, circondato da sughere, lecci e roverelle. Nella parte nord vi sono le stalle con le mangiatoie per gli animali e una serie di box per i cavalli. Al centro dell’edificio si trova un ampio salone, in buono stato di conservazione con al centro un grande camino.

Nel complesso di edifici è presente anche una colonia estiva abbandonata, aperta a fine anni ’50 e gestita da un privato (tale Serra) che ospitava i ragazzi delle scuole di Cagliari, mentre i giovani di Laconi andavano nella colonia pubblica di Santa Sofia. La colonia di Su Dominariu ospitava tra i 200 e i 300 ragazzi nel periodo estivo. Ha cessato l’attività nei primi anni 70.

All’interno di un piccolo giardino antistante l’ex colonia, è presente un albero monumentale risalente presumibilmente all’anno di costruzione dell’edificio. Si tratta di un Tiglio (Tilia cordata). L’ex colonia comprendeva diverse stanze oggi ingombre di vecchi letti e di materassi disordinatamente accumulati. E’ un susseguirsi di vari ambienti, di stretti corridoi, di buie stanze, quasi un labirinto, con i vecchi intonaci tinteggiati di verde e bianco oggi preda dell’umidità, delle muffe e di ragnatele che ne hanno invaso gli angoli.

Un triciclo abbandonato in uno degli anditi è il malinconico testimone della presenza dei bambini della colonia le cui giocose voci echeggiano ancora nell’ampio salone dipinto di rosso e oggi sostituiti dalla presenza dei tanti pipistrelli che vi hanno trovato dimora negli angoli più bui.

Dove si trova: Su Dominariu è distante circa 8 chilometri da Laconi e si raggiunge percorrendo la strada Prov.le nr. 52, in direzione Laconi – Aritzo poco dopo la borgata rurale di “S. Sofia”. Google Maps.

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Colonia Marina dei Figli dei Ferrovieri, Golfo Aranci

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Uno spettrale complesso di casermoni abbandonati, una volta regno dell’infanzia

sa-11-11-15-020Ancora una volta, visitare la periferia di Golfo Aranci è come varcare il confine di tempi e mondi lontani ora scomparsi. Dopo Capo Figari con i suoi storici semafori e avveniristici forni elettrici, l’ultimo tassello di questo grande puzzle dell’abbandono è la Colonia Marina dei Figli dei Ferrovieri, un grosso complesso di edifici che sorge a ridosso della stazione ferroviaria del paese.

Risalente ai primi anni ’50, era una delle tante strutture balneari o montane che, anticipando l’avvento del turismo di massa, permettevano ai bambini delle classi sociali meno abbienti (in questo caso i figli dei dipendenti delle Ferrovie) di trascorrere qualche spensierata settimana estiva lontana dalle realtà quotidiane dell’entroterra isolano. Alcune costruite in luoghi quasi paradisiaci come Sant’Antioco, Sa Fraigada, Lu Bagnu o Alghero, altre incastonate in territori alieni e semidesertici come Funtanazza, Laconi o Bau Muggeris.

La colonia di Golfo Aranci appartiene ad entrambe le categorie. Aggirandosi tra i suoi ruderi e risalendo gli edifici lo sguardo non può non essere calamitato dalla bellezza dell’isola di Figarolo, del Golfo di Olbia e delle aspre e frastagliate montagne galluresi, persino dell’adiacente pozzo sacro nuragico di Milis, giunto a noi quasi intatto; ma è sufficiente riportare gli occhi a terra per osservare sconsolati uno scalo merci e un porto silenziosi e deserti, cataste di binari arrugginiti e vecchie traversine che incombono alle nostre spalle. Una piccola cittadina in miniatura, dall’aspetto vagamente autarchico e dotata dei principali servizi necessari alla sopravvivenza: direzione, dormitorio, piscina, refettorio, infermeria e un sottopasso ferroviario per la spiaggia, oggi in completa rovina.

Eppure, ai suoi tempi d’oro, anche questa colonia ha significato qualcosa per una generazione di bambini. O almeno è quello che racconta il bellissimo e ingenuo cinegiornale numero 19 delle Ferrovie dello Stato, girato nel luglio 1957. “Un giorno al mare”, una giornata-tipo idealizzata e forse mai realmente vissuta, accompagnata da un rassicurante sottofondo musicale e da un gioioso commento all’insegna dell’ottimismo più sfrenato, ma da cui traspare il lessico militare e l’impronta ancora conservatrice tipica dell’epoca.


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Alzabandiera, preghiere mattutine, file indiane, corpulente animatrici armate di fischietti e allegri giuochi comuni a tutti i bimbi del mondo: una bizzarra routine che a un certo punto si è interrotta per far posto all’irreversibile declino. Dopo qualche decennio di gestione da parte dell’Opera di Previdenza Figli dei Ferrovieri, la colonia venne acquisita dai Padri Filippini e dall’Associazione Nazionale San Paolo Italia (ANSPI) di Vicenza, sotto la cui egida restò attiva fino ai primi anni Duemila.

Non sappiamo il come, ma il quando: l’ultimo segno di vita risale al 2001, come testimonia impietosamente un breve messaggio sul sito web della colonia, che tuttavia non esclude la possibilità di un’eventuale riapertura:

coloniaQuindici anni dopo, la gioia e la spensieratezza della colonia sono solo un pallido ricordo i cui indizi sono disseminati tra gli spettrali casermoni. E, proprio come i ricordi, fiori cartonati, allegri delfini e variopinti murales sbiadiscono lentamente sotto il sole della Gallura.

Dove si trova: a Golfo Aranci, presso la stazione ferroviaria. Google Maps

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Sporting Club Monte Spada, Fonni

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Altissimo, barbaricinissimo, abbandonatissimo: a Fonni l’abbandono più alto dell’isola.

Costruito dall’imprenditore fonnese Carletto Cualbu sul finire degli anni ‘60 e inaugurato nel 1972-73, impreziosito dalle opere di Liliana Cano, questo resort montano ben celato dai boschi per decenni ha allargato gli orizzonti isolani. Sciorinando numeri come 1300 metri di quota, 400 coperti, 160 posti letto, 58 camere e 11 cottage, che nei racconti popolari si ingrandiscono a dismisura. A questi si aggiunge la piscina con trampolino e un numero imprecisato di forni e camini per arrostite.

Sporting Club Monte Spada visto dall’alto, Google 2017

Lo Sporting Club Monte Spada si è già dimostrato capace di sconfiggere l’abbandono. Chiuso verso il 1986 negli anni di un presunto buio malavitoso, fu acquisito dal Comune grazie agli infiniti fondi della Regione e riaperto verso il 1993 da una tipica cooperativa giovanile locale. In seguito contenziosi e conflitti di gestione portarono all’odierno abbandono da fine 2002.

Da allora è ormai una tappa obbligata per generazioni di sciatori curiosi e urbex sardi, mentre ladri, vandali, neve, pioggia e gelo si dedicano come da tradizione alla sua graduale demolizione.

Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 7 fra Fonni e Desulo (NU). Google maps

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Ex manicomio di Rizzeddu, Sassari

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Nei meandri di ciò che resta di uno dei più grossi manicomi sardi, dove un letto e una flebo aspettano ancora qualcuno

Studenti universitari che corrono affannati, coppiette che passeggiano, un campetto sportivo, aree di esercizio, perfino un percorso salute sponsorizzato dalla scomparsa fondazione Kraft: questo è oggi il parco di Rizzeddu. Tra alberi e siepi di questo piccolo polmone verde che ispira serenità e pace interiore fanno capolino uffici sanitari allineati quasi militarmente, una chiesa, un serbatoio idrico e un eliporto. In un angolo più tranquillo, vanno a dormire le Panda bianche dell’ASL.

Abbandonando per un attimo i viottoli più battuti ci si accorge subito che qualcosa non va come dovrebbe. Le inquietanti opere d’arte, realizzate dall’ultima comunità assistita, sembrano nate per essere abbandonate. La prima avvisaglia è la lugubre presenza del complesso della Patologia Forense, poco oltre l’ingresso del parco. Proseguendo oltre, è sufficiente aprire una porta fatiscente per passare dal regno dei vivi e dei sani a quello dei morti, e ritrovarsi nei meandri di ciò che resta di uno dei più grossi ospedali psichiatrici sardi.

La sua storia risale a poco più di un secolo fa: spinto dalla “impellente necessità” di accogliere il gran numero di malati psichiatrici fino ad allora ricoverati negli ospedali civili, nel 1897 il Consiglio Provinciale sassarese acquistò un terreno di sette ettari in località Rizzeddu. Nel 1904 venne inaugurato l’omonimo complesso sanitario in grado di assistere i degenti secondo le indicazioni e le direttive della nascente moderna psichiatria.

Come tutti gli ospedali di questo tipo, anche sul manicomio sassarese gravarono luci ed ombre. Da sempre la complessità dell’infermità mentale è oggetto di polemiche sulle implicazioni etiche e terapeutiche: detrattori che criticavano pratiche quali ricoveri coatti, sedazioni, elettroshock e privazioni delle libertà individuali contrapposti a sostenitori più o meno entusiasti e fautori della necessità di tali provvedimenti. E ancora oggi non si placa l’annosa diatriba sulla Legge Basaglia del 1978. Lungi da noi profani giudicare le attività dei vecchi manicomi: sicuramente vi furono anche numerose guarigioni e reinserimenti sociali, come testimonia chi vi ha prestato servizio.

Nel periodo di maggiore affluenza verso la fine degli anni ’50 Rizzeddu arrivò ad ospitare ben 1.200 malati. Erano suddivisi in “tranquilli, agitati e sudici”, classificazione che cadrà poi in disuso. L’attività proseguì fino al 1998, anno della chiusura per gli effetti a lungo termine della Legge Basaglia. Tutto intorno il complesso ha subito un assedio istituzionale, venendo mutilato per costruire il viale Turati, due licei fra cui il glorioso Spano, l’unico cinema della città, una compagnia teatrale, la caserma dei Carabinieri, la nuova sede dell’INPS e persino l’incubatore universitario. Quasi tutti i 13 padiglioni sono stati oggi riconvertiti a dipartimenti sanitari e ambulatori.

Se la maggior parte di essi è risorta a nuova vita, il padiglione maschile è rimasto uno dei pochi testimoni del passato: il cortile è un’intricata selva di rovi che nasconde panchine e ringhiere, le facciate si sgretolano e le persiane chiuse permettono solo a rari spiragli di luce di penetrare all’interno.

Esplorando l’edificio si è assaliti da un irrazionale ma opprimente senso di tensione e inquietudine. Favorita dall’oscurità, la sofferenza che abitava questo luogo sembra ancora serpeggiare tra le pareti: per scacciarla via non bastano né gli allegri motivi floreali né le scontate scritte sui muri inneggianti all’inversione di ruoli tra sani di mente e “matti”. Un silenzio lacerante rotto solo dai nostri passi rimbomba nei corridoi bui, mentre al piano superiore un letto e una flebo attendono ancora qualcuno.

Decisamente molto più che un’atmosfera manierata da film horror: questo angolo abbandonato è diventato la materializzazione di tutti i nostri incubi e paure, di oscurità, solitudine, follia e morte. Il tutto simbolicamente circondato da un muro che lo isola e lo nasconde dal mondo esterno di benessere e sanità fisica e mentale: un muro attraverso cui basta varcare con facilità la soglia per sprofondare nell’abisso.

Dove si trova: a Sassari nell’omonima via Rizzeddu. Google maps

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Ex Polveriera di San Giovanni, Siliqua

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foto di copertina di Boi Alessandro Aerial Works

Una vera e propria città militare abbandonata. E’ stata attiva dagli anni ’30 al 1985, mentre oggi è una delle mete preferite di chi la guerra la fa per gioco e di chi disegna sui muri.

Come ci piace ricordare, in mezzo al nulla c’è qualcosa. Ad esempio a pochi chilometri da Siliqua, tra la macchia mediterranea, c’è l’ex polveriera di San Giovanni. E’ una vera e propria città militare abbandonata, in passato deposito di armi e munizioni della marina militare e poi dell’esercito.

E’ stata attiva dagli anni ’30 del secolo scorso fino agli anni ’70, ma fino al 1985 era presente un presidio militare. Poi l’abbandono. Almeno per quanto riguarda le divise ufficiali, dato che l’area oggi è un punto di riferimento di altre divise, cioè di chi la guerra la fa per gioco, i softgunner. Ma anche di artisti più o meno bravi che si esprimono sui muri (anche se noi siamo dalla parte dei meno bravi: si veda il consueto spazio dedicato alle scritte oscene).

L’area, circa 80 ettari, occupa diversi edifici, quasi tutti ridotti a ruderi. Le case dove i militari vivevano con le loro famiglie, la casermetta dei carabinieri, un locale con le insegne della Marina, la grande palazzina degli alloggi dove hanno portato via persino i pavimenti, il lavatoio, il distributore del carburante e il grande bunker, ma anche la ferrovia, le casette, il campo di calcio, la cabina elettrica. Altri luoghi difficili da identificare in quanto spogliati completamente di ogni cosa: forse la mensa, la lavanderia, il circolo dei marinai. In pratica una piccola città.

Intorno al perimetro le garitte e le torrette da dove si sorvegliava e si controllava tutta l’area. E poi il vecchio tracciato ferroviario ormai privo di binari con la stazione, la sala scambio dei binari, l’edificio dello scarico merci e più avanti quello del carico merci .

Dietro la ferrovia vi sono i 13 depositi di armi e munizioni. Questi sono situati all’interno di aree protette da alti argini di contenimento al cui interno si accede tramite un arco in pietra. Gli edifici presentano i resti della gabbia Faraday costituita da un insieme di conduttori metallici incrociati che avvolgono tutta la costruzione e hanno una messa a terra. La gabbia serviva per la protezione dalle scariche elettriche atmosferiche.

A margine dell’area originaria la grande struttura dell’autoparco, dove dal soffitto penzolano come stelle filanti i ferri dei travetti, impossibili festoni che si inseriscono perfettamente in una scenografia surreale solo in parte creata dall’uomo.

All’interno di quest’area vi sono numerose discariche di materiali inerti, compreso l’amianto, e incredibilmente nessuna capra.

Ma quello che veramente colpisce attualmente è l’abbondante presenza di murales che hanno colorato questi edifici austeri e ormai spenti. Decine e decine di immagini sulle pareti: dai mostri immaginari che incombono sul visitatore alle scritte tipiche della street art, fino alle scritte più semplici, incerte e a loro modo poetiche: “ho fatto un incubo poi mi sono accorta di non essermi addormentata”, “Popota 6 la mia vita…il tuo cucciolo”, oscenità, insulti, svastiche e tutto ciò che può venire in mente facendo quattro passi in campagna tra i ruderi di una città militare abbandonata.

Dove si trova: nella campagna a pochi chilometri da Siliqua, sud Sardegna, non lontano dalla SP90. Google Maps.

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Orfanotrofio Sacro Cuore, Lu Bagnu

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Un orfanotrofio in riva al mare, dove la sabbia e il maestrale hanno sepolto storie e ricordi

Spiagge lunghissime, bassi fondali, facile accessibilità: non stupisce che il piccolo centro di Lu Bagnu sia stato eletto a sede ideale per colonie estive per l’infanzia. A partire dal secondo Dopoguerra, infatti, questo tratto di costa dell’Anglona conobbe un rapido sviluppo diventando un crocevia di Istituti di Carità di mezza Sardegna, presso cui centinaia di bambini trascorrevano l’estate. Stella Maris, Santa Bernardetta, Celestine, Manzelliane, Domus Mariae, Maria Assunta sono solo alcuni dei nomi che caratterizzano questa sorta di capitale vacanziera ecclesiastica in parte ancora attiva.

Ma solo poco prima di questa letterale colonizzazione, Lu Bagnu non esisteva. O quasi. Non era il classico villaggio di pescatori o una postazione militare, ma qualcosa di inaspettato: Lu Bagnu era un orfanotrofio. Alla metà degli anni ’50 infatti gli unici segni di presenza umana erano una strada, alcune sparute casupole e due edifici più grandi: la Casetta San Giuseppe e l’orfanotrofio Sacro Cuore.

Situato subito dietro l’omonima spiaggia, in precedenza nota come Ampurias, questo grosso caseggiato oggi in rovina e di cui sappiamo solo il nome e la funzione racchiude dentro di sé una storia misteriosa: forse non la conosceremo mai, se non rovistando tra i polverosi archivi di qualche biblioteca.

Al suo interno, dalle finestre senza più vetri, la sabbia spazzata dal maestrale ha preso possesso diventando l’elemento principale. Al pianterreno, in un grande salone, si apre uno scenario inquietante e indecifrabile: una statua di un anonimo santo senza testa emerge al centro di decine di oggetti di uso comune all’epoca, inglobati dalla sabbia come un gigantesco fossile.

Risalendo le scale ci imbattiamo in uno spettrale stanzone con letti accatastati e tracce di cera di candela sui comodini, un’immagine ferma apparentemente a un secolo fa che non riesce a trattenere il suo carico disturbante. Una piccola cameretta appartata e oscura, con bambole, giocattoli e altri oggetti vezzosi da bambina, fa venir voglia di fuggire via in preda all’angoscia.

Le risposte che cercavamo non sono state trovate. Difficile, forse impossibile ripercorrere le vite degli orfani ospitati nel Sacro Cuore. Possiamo solo immaginare frammenti di drammi e felicità, di sofferenze ma anche di fugaci spensieratezze estive: indizi parziali e imperfetti come le centinaia di tessere di puzzle sparse per l’edificio, che nessuno ricomporrà più, sommerse da un mare di sabbia e polvere.

Dove si trova: sul lungomare di Lu Bagnu, in direzione Castelsardo. Google Maps

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Cartiera di Arbatax

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Da montagne di carta a cumuli di macerie: la parabola di una delle più grandi industrie sarde

Un silenzioso deserto di terra battuta e capannoni scheletriti: chi avrebbe mai immaginato una fine così ingloriosa per la Cartiera di Arbatax? La più grande fabbrica dell’Ogliastra, una delle principali e rinomate della Sardegna, addirittura la seconda del suo genere in Europa, è oggi un enorme cimitero industriale che si estende tra serbatoi e gru arrugginite a due passi dal mare.

Com’è avvenuta questa piccola apocalisse? Perché montagne di carta bianca sono state rimpiazzate da cumuli di macerie? Sono solo alcune delle domande che ci ronzano in testa mentre, dopo una lunga camminata in mezzo all’erba incolta, ci addentriamo nei suoi colossali edifici superstiti. Il per nulla romantico mondo dell’Economia non ammette ricordi e rimpianti, tutto ruota attorno a due semplici e fumettistiche parole, l’alfa e l’omega della Finanza: il boom e il crack.

Il boom è noto a tutti: nel pieno degli anni ’60, ottimismo, voglia di riprendersi dagli incubi della guerra e mettersi alla prova. È il 1963 e in una delle poche aree pianeggianti dell’Ogliastra, strategicamente vicina al porto di Arbatax, la Cartiera apre i battenti sotto l’egida dell’industriale trentino Pietro Ferraro e del giovane ingegnere cagliaritano Paolo Marras, che gestiva il comparto tecnico. Il complesso raccolse immediati consensi, sia da parte della popolazione che del mondo commerciale.

Gli affari andarono da subito a gonfie vele. Forte dell’enorme richiesta produttiva, la fabbrica lavorava a ritmi frenetici, il regime 24/7/365. Il tutto incentrato sul suo instancabile cuore pulsante, la macchina continua Arborea, alla quale sette anni più tardi si aggiunse la gemella Bonaria: 123 ettari di pura efficienza, nutriti da una centrale termoelettrica dalle grandi ciminiere. Per un attimo Arbatax divenne una piccola capitale del Mediterraneo, nucleo attorno al quale orbitavano navi mercantili (talora anche dieci in rada) cariche di legna, cellulosa e talco provenienti principalmente dai Paesi scandinavi, Unione Sovietica e persino dal Canada. Gran parte delle oltre 400 tonnellate quotidiane di carta prodotta venivano esportate in tutta l’Europa meridionale, Nord Africa e Medio Oriente, anche tramite due grossi cargo di proprietà della ditta stessa, l’Arbatax e la Latinia. In poco meno di un decennio l’impianto arrivò a coprire il 60% del consumo nazionale di carta da giornale e rotocalco.

Il grande traffico di materie prime e prodotti finiti non rivoluzionò solo il sistema di trasporti marittimi locali: il secolare isolamento ogliastrino venne spezzato anche dalla costruzione del vicino aeroporto di Tortolì-Arbatax, vitale per lo sviluppo della Cartiera, oggi testimone anch’esso abbandonato di quell’irripetibile periodo d’oro.

La Cartiera fu la principale fonte di occupazione industriale per la popolazione del luogo, arrivando a contare più di mille dipendenti, tra operai e lavoratori portuali, molti dei quali formati da corsi preliminari. Le cronache e le testimonianze di allora, oggi quasi mitizzate, parlano di dipendenti validi, efficienti e supportati da un autorevole movimento sindacale. “Negli anni ’60 un operaio andava a lavorare in bici o a piedi, poi l’economia iniziò a girare e gli operai poterono permettersi di comprare l’auto. A Tortolì si iniziarono a vedere le prime 500, 126, 124. Essere un cartario era diventato ormai uno status e in quegli anni si usciva con la tuta da lavoro, il fascino della divisa era un ottimo modo per trovare una fidanzata”, racconta con divertita nostalgia uno dei dipendenti.

Ma ogni equilibrio, prima o poi, è destinato a vacillare. Nello stile bianco e nero dell’editoria di quegli anni, anche nella Cartiera oscure trame politiche iniziarono a serpeggiare sotto la candida facciata di alacre dinamismo. Nel 1973 venne acquisita dalla Fabocart del milanese Giovanni Fabbri, noto col rappresentativo nomignolo di “Artiglio di carta”, legato da stretti rapporti con Licio Gelli e Roberto Calvi. In accordo col programma della P2 e ben consapevole del fatto che gran parte della carta da giornale italiana partiva da Arbatax, l’obiettivo di Fabbri era il monopolio delle materie prime per tenere in pugno e controllare l’intero mercato editoriale: furono paradossalmente gli anni dell’apogeo della Cartiera, ma che allo stesso tempo spianarono la strada verso il punto di non ritorno.

Lo scandalo della P2, a fine anni ’70, fu un autentico terremoto che spazzò via i giochi di potere e si ripercosse anche localmente, spodestando Fabbri e la Fabocart. Nel 1981 gli operai e i vertici sindacali iniziarono l’autogestione fino a un tentativo di riacquisizione da parte dell’imprenditore milanese celato dietro holding straniere. Fallita anche questa manovra, la Cartiera diede il suo canto del cigno grazie alla gestione del manager Mario Lupo, che regalò un piccolo spiraglio di luce. Ma fu solo una breve illusione. Dopo il 1989 si entrò in un’inarrestabile spirale di crisi, avvicendamenti amministrativi, scelte imprenditoriali infelici, gestioni fallimentari, bancarotte e persino lo spettro di infiltrazioni mafiose: una serie infinita di colpi di grazia che, uno dopo l’altro, hanno sancito il crack.

Gli anni ’90 si aprono infatti con una profetica frase dell’allora ministro dell’Industria Paolo Savona, secondo cui “l’Ogliastra è meglio che punti sul turismo”: il vento commerciale soffia ormai verso altri lidi, le rotte navali cambiano e Arbatax resta sola. A nulla servono gli estremi tentativi di salvataggio dell’imprenditore cagliaritano Nichi Grauso (dal 1995 al 1997) e, ultima della lista, la Girasole SpA che nel 2005, dopo tre anni di agonia, conclude la parabola della Cartiera in un’aula di tribunale.

Come una gigantesca carcassa, la Cartiera viene lentamente smembrata da tutte le sue componenti: in meno di un decennio gran parte dei suoi possenti edifici vengono demoliti, le due macchine continue vengono smontate e date in pasto alle fonderie della penisola, 90 dei suoi ettari vengono fagocitati da nuove imprese locali che popolano l’area portuale con nuovi e anonimi capannoni industriali.

In mezzo a questo deserto, tuttavia, è impossibile non rimanere impressionati dalla grandezza delle strutture che ancora resistono ai mezzi da demolizione. L’edificio macchina continua è un unico, colossale capannone, una sterminata distesa di ciclopici pilastri che si estendono a perdita d’occhio e fanno quasi pensare a un’opera di esseri mitologici. Svuotati dai roboanti apparecchi, il solo rumore che riempie gli spazi è qualche raro sbattere d’ali di piccione. Tutto il resto è immobile, anche i ganci da carico arrugginiti pendono nel vuoto senza un cigolio.

Percorrendo una passerella si entra nella centrale termoelettrica con le sue ciminiere gemelle, anch’essa ormai ridotta a un pericolante scheletro di cemento, ma che conserva ancora frammenti di vita quotidiana dell’impianto: gli impianti seminterrati, la mensa degli operai, gli uffici della Direzione con i cilindri di carta e modelli da mostrare agli acquirenti, gli archivi e il laboratorio chimico.

All’esterno dell’edificio principale un’enorme scritta circondata da piante rampicanti, in ombra rispetto alla luce del tramonto, ricorda in modo tristemente beffardo l’ultimo e disperato tentativo di sopravvivenza della fabbrica: Girasole. Non c’è dubbio, il Sole ha decisamente girato le spalle alla Cartiera.

Dove si trova: nel porto industriale di Arbatax. Attenzione, gli edifici sono pericolanti e ad altissimo rischio di crolli. Google Maps

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Colonia montana di Sant’Antioco, Scano Montiferro

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Le foreste del Montiferru nascondono ciò che resta di una vecchia colonia montana

DSC_4571“Un paradiso verde“: così, ormai da quindici anni, le amministrazioni locali del Montiferru sperano possa tramutarsi la foresta di Sant’Antioco. E sicuramente era il medesimo avvenire che il vecchio vescovo di Bosa, Monsignor Francesco Spanedda, aveva immaginato per questo fitto bosco ricevuto dalla Curia nei primi anni ’60, dopo una donazione di devoti cittadini.

Vorremmo avere anche noi lo stesso ottimismo ma, scrutando fra gli alberi, tutto ciò che riusciamo impietosamente a intravedere sono solo ruderi, macerie e scheletri. Tutto è dominato dalla vecchia colonia montana, costruita in quel periodo e attiva fino agli anni Ottanta, oggi abbandonata a se stessa e spogliata da qualunque arredo o infisso. Per quasi tre decenni i suoi 900 metri quadri accolsero e ospitarono centinaia di bambini delle famiglie meno agiate provenienti da gran parte dell’isola, com’era consuetudine all’epoca. Buone opere che nelle intenzioni avrebbero dovuto sfidare i secoli, ma che nella realtà sono cadute in rovina nel giro di una generazione.

L’aspetto è quello di un inquietante casermone a due piani che sorge su una collina alberata, isolato dal mondo esterno da una giungla di rovi e sprofondato nel silenzio: non esattamente qualcosa di paradisiaco, sepolto da polvere, crolli, calcinacci e vandalismi di ogni tipo.

Nel cortile antistante, come ogni struttura infantile abbandonata che si rispetti, un parco giochi arrugginito attende ancora che i pargoli vengano a sé. Ma i bambini di un tempo, ormai cresciuti, ritornano nella colonia come per un rito iniziatico e non c’è più spazio per grida festose: solo un diluvio di scritte adolescenziali e scorribande goliardiche in cerca di effimere trasgressioni, un enorme diario delle scuole medie a cielo aperto.

Almeno questa volta i muri possono parlare e, tra un richiamo sessuale e una chiamata da telefono fisso, fanno beffardamente capolino i segni del passato: le ingenue e variopinte insegne del salone da pranzo e una rappresentazione evangelica, quest’ultima inspiegabilmente quasi risparmiata dalla selvaggia furia iconoclasta dei finesettimana alcolici.

Dove si trova: nel parco delle sorgenti di Sant’Antioco, tra la SP63 e la SP78. Google Maps

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Albergo ESIT Ortobene, Nuoro

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Un enorme albergo montano dall’aspetto post-apocalittico

Siamo sulla montagna sacra dell’Atene sarda, una grande foresta dove si staglia il Protettore della città. Non stiamo parlando della statua giubilare, e nemmeno dello stuolo di antenne: a proteggere Nuoro è l’imponente mole dell’Albergo ESIT, Ente Sardo Industrie Turistiche.

Glorioso carrozzone regionale che tanto ha dato all’isola, lasciando una lunga scia di abbandoni, da Bosa a San Leonardo, da Villacidro a Santa Teresa, da Tonara alla Maddalena, da Alghero a Cuglieri. L’Hotel ESIT di Nuoro, costruito negli anni cinquanta, fu presto chiuso nel 1970 per diventare una scuola alberghiera dell’EnAP, l’Ente Addestramento Professionale altrettanto celebre per simili meriti paesaggistici.

E anche a Nuoro impossibile non notarlo, difficile non incontrarlo durante una delle sagre del Redentore in cui devoti e turisti si spargono ovunque in cerca di refrigerio e parcheggio. Un abbandono tanto ingombrante e con così poca speranza che persino i comitati popolari qui prendono nomi come Ultima spiaggia, a 25 chilometri dalla costa.

L’ESIT, il cui stemma dorato brilla ancora sulle porte a vetri, si presenta come una creatura bifronte: verso sud colori chiari, magnifico panorama, trionfa la luce. Verso nord uno stretto terrapieno, colmo di locali di servizio e rifiuti: le pareti dell’albergo non sembrano più appartenere a questo mondo, il loro verde muffa così profondo e antico trasporta a dopo l’apocalisse. Ora tutto acquista senso: l’albergo non è stato abbandonato, ma tutti gli accessi sono stati chiusi dall’interno con delle barricate.

Arredi divelti, armadi, scaffali, tutto è servito per difendere porte e finestre da quella che è chiaro essere stata una pandemia zombi. Una consapevolezza irrompe nelle nostre menti: i suoi occupanti hanno cercato di salvarsi da chi voleva entrare, da chi vagava per l’isola, da … noi umani?

Dove si trova: sulla sommità del monte Ortobene, in località Nostra Signora del Monte. Google Maps

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Zona industriale di Macomer

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caseificio_albano_dsc_4660I luoghi abbandonati della periferia di Macomer raccontano ciò che resta di una piccola rivoluzione industriale

Un’intera periferia industriale abbandonata: è tutto ciò che resta del boom economico che per quasi un secolo ha lambito Macomer, le cui onde sembrano ormai essersi ritirate lasciandosi dietro un deserto di cemento. Cittadina ai piedi della catena del Marghine, per una serie di fortunate coincidenze geografiche, logistiche e climatiche non passò inosservata agli occhi dei primi imprenditori locali e stranieri protagonisti degli albori dell’era industriale sarda.

Il primo fra tutti non poteva non essere l’inglese Benjamin Piercy, che solo pochi chilometri più a nord, nell’altopiano di Campeda, aveva insediato la sua residenza e il suo principale centro produttivo agropastorale. Già punto di passaggio del collegamento stradale Sassari-Cagliari, Macomer venne infatti scelta come snodo tra la medesima e nascente linea ferroviaria e la tratta trasversale Nuoro-Bosa, per cui era stato edificato il glorioso Albergo delle Ferrovie: siamo nel 1880.

Anche i fattori atmosferici ebbero un’importanza primaria nel dare a Macomer il proverbiale momento di gloria: il suo clima mite, secco e ventoso, ideale sia per la stagionatura dei formaggi che per la lavorazione della lana. Inoltre, la presenza di un buon terreno di pascolo influiva positivamente sulla qualità del latte prodotto. Voci e informazioni si sparsero oltre il Tirreno, iniziarono i sopralluoghi e fu così che un gruppo di imprenditori provenienti da varie regioni trasformarono i cinque ettari della periferia nord del paese in una fiorente zona industriale casearia. La “rocca del nido del corvo”, questo il nome del costone, venne scelta sia per l’adiacenza alla stazione ferroviaria che per la posizione rialzata rispetto al sottostante fiume S’adde, in modo da facilitarvi gli scarichi dei rifiuti di lavorazione (cosa oggi impensabile).

Uno dopo l’altro, i protagonisti di questa piccola rivoluzione industriale, alcuni imparentati tra loro, si stabilirono in quello che lo scrittore Elio Vittorini, con l’ottimismo tipico di quegli anni, definì “l’equatore della Sardegna”. Superate le iniziali diffidenze dovute all’assenza di una visione industriale locale, Macomer ebbe un improvviso sviluppo e una rapida espansione demografica e urbanistica, con possibilità di lavoro per centinaia di abitanti del circondario. Grossi nomi come Bertolli, Locatelli, Bozzano, Galbani, Polenghi, Ambriola, Tazza, Castelli e Cannavale, alcuni noti ancora oggi, si succedettero in questo angolo del Marghine. Ai caseifici, ben undici, si aggiunsero presto impianti di produzione di tessuti, birra e calzature. Le storie oggi dimenticate di quegli anni a cavallo tra i due secoli, talora paragonabili a vere e proprie saghe familiari, non possono non affascinarci.

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Dopo Piercy, tra i primi personaggi che incontriamo spiccano Angelo e Giovanni Battista Bozzano, figli dell’armatore e commerciante ligure Davide, che già prima del 1892 inaugurarono le attività casearie nel Marghine; successivamente diedero il via ad una rete di esportazioni culminata con l’iscrizione della Società alla Camera di Commercio di New York nel 1908. Le attività proseguirono sotto la guida dei successori Luigi e Giuseppe fino al 1958, con la fusione con la Dalmasso e la Società Romana ICPA (Bertolli) che diede vita alla BDR (Bozzano-Dalmasso-Romana), attiva fino alla fine degli anni ’70.

Seguì quindi l’arrivo di Gustavo Salmon, banchiere livornese di origini ebraiche ed emigrato dall’Algeria, che nel 1895 diede vita a un caseificio con la cifra di 270.000 lire in marenghi d’oro.

 

Caseificio Albano

Venne poi il turno di Vincenzo Albano, imprenditore lucano già fautore di una importante esportazione di pecorino negli Stati Uniti, che proseguì una volta aperto lo stabilimento di Macomer, nel 1905. Il caseificio Albano non ebbe vita facile: ubicato nell’odierna via Sulis, partì da ottime premesse con la creazione di un inverosimile ma efficientissimo triangolo commerciale tra Napoli, Macomer e New York e riuscì a mantenere una fiorente attività sfidando una sfortunata alternanza di lutti familiari e crisi economiche. Nel giro di quindici, infatti, l’azienda perse prematuramente i figli Salvatore e Francesco e, infine, il suo fondatore; iniziarono inoltre le prime lotte sociali con i pastori del circondario, che accusavano gli Albano di eccessivo sfruttamento e capitalizzazione dei loro prodotti.

È il 1920: la nuora di Vincenzo, Teresa De Rosa, da quel momento nota ai locali come “la vedova”, non si perse d’animo e, pur con tre figli piccoli a carico, prese in mano le redini dell’azienda. Cinque anni più tardi, su espressa richiesta, sbarcherà a Macomer anche il cognato e imprenditore Michele Di Trani con cui darà il via alla società Albano-Di Trani. La vedova Albano, come racconta il figlio Salvatore, “non si limita ad affiancare il socio Michele Di Trani nel lavoro. Si occupa anche di opere benefiche. Fa ricostruire l’altare maggiore di San Pantaleo, provvede a fornire la parrocchia di un oratorio, si adopera in tante occasioni ad alleviare le sofferenze altrui”.

Un’altra dura prova era alle porte: la grande crisi economica americana del 1929 e la svalutazione del dollaro del 1933 limitarono notevolmente i traffici verso New York assestando un grave colpo al caseificio, che saprà comunque rimettersi in piedi e riprendere le esportazioni pochi anni più tardi. Anche il secondo conflitto mondiale lascia il segno nei rapporti commerciali con gli USA, comunque ripristinati nell’immediato dopoguerra. Ma le difficoltà non finiscono qui: nel 1947 avviene la separazione tra la Albano e la Di Trani, e fra quell’anno e il 1950 la vedova perde due dei suoi tre figli, impegnati nella gestione commerciale con gli USA. Il sogno americano si spegne e anche la De Rosa muore nel 1959: Salvatore, unico figlio superstite, riuscirà a tenere alto il nome della famiglia fino al 1979, data della chiusura e dell’abbandono del caseificio sia per anzianità che per la crescente minaccia della criminalità organizzata e dei sequestri di persona. L’ultimo direttore della gloriosa Albano si trasferì con la famiglia a Roma, non prima di essersi impegnato a ricollocare gli oltre cento ex-dipendenti presso altre aziende casearie locali.

 

Caseificio Di Trani

Dalla scissione con la Albano, nel settembre 1947 sorse il caseificio Di Trani, nell’odierna via Cavour. Il fondatore ampliò le esportazioni anche in Francia e Canada, e dopo la sua scomparsa nel 1958 il genero Ferdinando Melchiorre si occupò della gestione fino al 1980, con la chiusura per limiti di età e assenza di eredi maschi. I suoi cento operai e le moderne e sofisticate apparecchiature introdotte non furono sufficienti a salvare il caseificio dall’inesorabile abbandono. Oggi alcuni edifici del complesso sono parzialmente utilizzati come deposito.

 

Caseificio Dalmasso

Sempre su via Cavour si affaccia il caseificio Dalmasso. Fondato tra il 1937 e 1938 dall’imprenditore cagliaritano Lucrezio Dalmasso, proseguì l’attività per diversi decenni sotto la guida del figlio Ennio, fino alla fusione nella suddetta BDR e alla successiva chiusura nei tardi anni ’70. L’imponente struttura si estende per oltre 2.000 metri quadri ed è sviluppata su tre piani: nel pianterreno vi erano la sede amministrativa e il caseificio vero e proprio, mentre i due piani seminterrati, esposti a nord e riparati dalla luce solare, erano adibiti a deposito per stagionatura, come testimonia l’estesa rete di scaffali in legno ancora visibile dalle finestre.

 

Caseificio Centola

A poca distanza, lungo la ferrovia, emergono i ruderi del caseificio Centola. Anch’esso è un reduce dell’epoca, e prende il nome dal commerciante lucano Domenico Centola che lo edificò nel 1908. Anche qui non mancarono le esportazioni oltreoceano, sia pure in misura minore rispetto agli Albano con cui tuttavia venne instaurato un rapporto di stretta collaborazione. L’attività andò avanti fino al 1938, anno della morte del fondatore, dopo la quale subentrò per un decennio Giuseppe Scarpati di Meta di Sorrento. Otto anni più tardi, nel 1956, lo stabilimento smise di brillare di luce propria ed entrò sotto l’egida della società Bozzano, fino alla chiusura definitiva nel 1979.

 

Lanificio ALAS

Resta infine il complesso del lanificio ALAS, ultimo tassello del mosaico di edifici del quartiere, ma non certo secondario per importanza. Nel 1933, in pieno regime fascista, venne introdotta la lavorazione industriale dell’enorme quantità lana e dell’orbace prodotte nella zona, da sempre confinata in ambito familiare. Macomer divenne il primo centro di sperimentazione regionale “per lo sfruttamento autarchico della lana sarda”, recitano le cronache dell’epoca, con la creazione dapprima della SCAI (Società Commercializzazione per l’Artigianato Italia), e successivamente dell’ALAS (Anonima LAniera Sarda), che divenne operativa tra il 1939 e il 1940.

Forte di un grande stabilimento esteso su più livelli per un totale di 10.000 metri quadri, sempre con nucleo su via Cavour su cui è ancora visibile un’avveniristica passerella, ebbe il gravoso compito di sostenere adeguatamente le forniture di coperte e materassi per il Regio Esercito. Nonostante le ovvie difficoltà del periodo bellico, la fabbrica riuscì pienamente nell’intento, in maniera perfino paradossale rispetto allo sfacelo delle industrie sul restante territorio nazionale: i vecchi registri riportano la capacità di lavaggio di 1.800 tonnellate di lana grezza e la conseguente produzione di oltre 240.000 metri quadri di tessuto (panni, divise, coperte, abbigliamenti militari come le camicie nere), grazie all’introduzione di 28 modernissimi telai meccanici e la manodopera di 600 operai, soprattutto donne. Nel 1942 l’ALAS ricevette anche la visita ufficiale di Mussolini, mentre l’anno successivo subì danni marginali durante un bombardamento alleato.

Concluse finalmente le ostilità, l’ALAS venne parzialmente riconvertita ad uso civile e tra il 1947 e il 1950 vi furono numerose controversie dirigenziali e amministrative. Negli anni successivi l’incombente spettro dei debiti e dei licenziamenti diede il via a una lunga serie di scioperi operai, culminata con la crisi del 1957-1958 in cui, dopo dieci giorni di occupazione, la Regione decise di intervenire economicamente per salvare l’azienda. Seguirono tre decenni di alterne vicissitudini, in costante bilico tra utili e perdite, al termine dei quali lo stabilimento venne trasferito pochi chilometri più a sud, a Tossilo, e rinominato come Texal. È il 1987, e l’azienda nata dalle ceneri dell’ALAS resisterà fino al 2001.


Termina qui la nostra carrellata sulla Macomer che fu. Oggi non ci sono superstiti in attività della prima generazione di fabbriche, mentre la seconda e la terza si insediarono nelle nuove e più versatili zone industriali di Tossilo e Bonu Trau, dove tuttora sopravvivono a stento dopo aver subito i durissimi colpi della recente crisi economica e di infelici scelte amministrative.

Non si può più parlare di equatore sardo né tantomeno di “Lingotto nuragica”, com’è stato proposto nell’ultima ventata di ottimismo dei primi anni 2000, oggi lontanissima. Al momento sono in stallo anche i lavori di riqualificazione e restauro di alcuni edifici, in un surreale sovrapporsi di abbandoni di diverse epoche. Percorrendo la deserta via Cavour, più che il Lingotto o le sfavillanti luci della Grande Mela, il pensiero rievoca una piccola Detroit, con le sue fabbriche in frantumi e le sue ormai sterminate distese di rottami industriali e sociali.

Nessun passante o traffico automobilistico, finestre che sbattono, impalcature arrugginite e cigolanti, gru immobili: la decadenza si è prepotentemente impadronita di quella che era la culla dell’industria isolana. Intrufolandosi in uno stretto vicolo che conduce sull’orlo del costone, si abbandona di colpo la città e ci si ritrova sul retro degli edifici ormai invasi da edere e rovi, simili a una barocca e bizzarra fortezza. Osserviamo per un attimo la SS131 che, dall’altra parte della valle, ha preso il largo da Macomer e fa scorrere indifferente il suo traffico. Ci dirigiamo di nuovo verso la rocca dove i corvi e soprattutto i piccioni sono tornati a fare il nido e a razzolare tra corpi e macerie, come nel più classico dei campi di battaglia.

Dove si trova: nella periferia nord di Macomer, lungo via Sulis, via Cavour e corso Umberto I. Google Maps

Su Dominariu

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L’intricata storia di un insediamento agricolo dove nel 1800 si allevavano i cavalli del re e di una colonia estiva oggi abitata dai pipistrelli.

I salti del Sarcidano, benché fertili, boscosi e ricchi di sorgenti d’acqua, restarono per molto tempo incolti e spopolati. Alla fine del XVIII secolo, durante il governo del Regno di Sardegna, furono adottati dei provvedimenti per incrementare l’aumento della popolazione sarda dando vita alla nascita di nuovi paesi. A questo proposito avrebbe dovuto rispondere anche la colonizzazione dei salti del Sarcidano con la fondazione della borgata di Santa Sofia.

dominariu_dscn0289Il villaggio venne fondato nel 1767. Il “salto” fu affidato a Salvatore Lostia, il quale ottenne il titolo di conte di Santa Sofia con l’obbligo, nel termine di dieci anni, di stabilirvi 40 famiglie locali e di costruirvi, a sue spese, una chiesa da affidare all’officiatura pastorale dell’Arcivescovo di Oristano.

Il nuovo centro, chiamato Villanova di Sarcidano, posto sotto il patronato di Santa Sofia, era però isolato, totalmente priva di strade, senza assistenza religiosa, al centro di contese fra il feudatario e l’arcivescovo, per cui andò avanti con molte difficoltà.

Fu riorganizzato dal Lostia per ben tre volte, dal momento che, per interessi pascolativi, venne ripetutamente distrutto dai pastori dei paesi limitrofi. Nel 1796, le famiglie si erano ridotte a nove, e nel 1799, appena a quattro.

Un ulteriore tentativo di colonizzazione fu riproposto dal figlio del Lostia nel 1806, ma anche in quella circostanza i coloni abbandonarono il villaggio. Nel complesso, i tentativi rivolti alla creazione del villaggio di Santa Sofia, dal 1767 al 1808, furono ben cinque.

dominariu_dscn0302Nel 1800 in Su Dominariu venivano allevati i cavalli che andavano alla cavalleria regia. Quella del Sarcidano è una tra le razze più antiche della Sardegna il cui patrimonio genetico è rimasto praticamente immutato sino ad oggi.

Nel secondo dopoguerra, grazie all’attività di bonifica e di riforma dell’ETFAS (Ente per la trasformazione fondiaria della Sardegna) le terre di Santa Sofia sono state completamente dissodate e risanate. Oggi la borgata è costituita da 32 famiglie con un totale di 100 abitanti, vi si svolge ancora l’attività agricola, con l’integrazione di altri settori produttivi.

Nel territorio di Santa Sofia è presente il rilevante complesso di Su Dominariu, parte del quale è stato costruito nel 1918-1920 dall’Istituto dei Fondi Rustici “Is Milanesos” e comprende stalle e abitazioni per circa 1900 mq. costituenti un quadrilatero di circa 8.000 mq. protetto dai venti freddi di maestrale. L’azienda modello aveva ben 600 cavalli, 350 vacche e 1600 capre.

L’Istituto, nella seconda metà degli anni Trenta, cedette l’azienda a Lucrezio Dalmasso (imprenditore cagliaritano attivo anche a Macomer) che non dimostrò, però, altrettanta competenza nella cura del cavalli. Nei pascoli introdusse un migliaio di pecore, e i cavalli ne risentirono.

dominariu_dscn0253Attualmente i cavalli sono del Comune di Laconi che li detiene nei terreni di Forestas tra Funtana Mela e l’altopiano di Santa Sofia.

Oggi il complesso è completamente abbandonato, circondato da sughere, lecci e roverelle. Nella parte nord vi sono le stalle con le mangiatoie per gli animali e una serie di box per i cavalli. Al centro dell’edificio si trova un ampio salone, in buono stato di conservazione con al centro un grande camino.

Nel complesso di edifici è presente anche una colonia estiva abbandonata, aperta a fine anni ’50 e gestita da un privato (tale Serra) che ospitava i ragazzi delle scuole di Cagliari, mentre i giovani di Laconi andavano nella colonia pubblica di Santa Sofia. La colonia di Su Dominariu ospitava tra i 200 e i 300 ragazzi nel periodo estivo. Ha cessato l’attività nei primi anni 70.

All’interno di un piccolo giardino antistante l’ex colonia, è presente un albero monumentale risalente presumibilmente all’anno di costruzione dell’edificio. Si tratta di un Tiglio (Tilia cordata). L’ex colonia comprendeva diverse stanze oggi ingombre di vecchi letti e di materassi disordinatamente accumulati. E’ un susseguirsi di vari ambienti, di stretti corridoi, di buie stanze, quasi un labirinto, con i vecchi intonaci tinteggiati di verde e bianco oggi preda dell’umidità, delle muffe e di ragnatele che ne hanno invaso gli angoli.

Un triciclo abbandonato in uno degli anditi è il malinconico testimone della presenza dei bambini della colonia le cui giocose voci echeggiano ancora nell’ampio salone dipinto di rosso e oggi sostituiti dalla presenza dei tanti pipistrelli che vi hanno trovato dimora negli angoli più bui.

Dove si trova: Su Dominariu è distante circa 8 chilometri da Laconi e si raggiunge percorrendo la strada Prov.le nr. 52, in direzione Laconi – Aritzo poco dopo la borgata rurale di “S. Sofia”. Google Maps.

Foto

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