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Channel: Edifici abbandonati – Sardegna Abbandonata
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Fortezza Capo d’Orso

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Una fortezza militare nascosta tra le rocce di Capo d’Orso. Dove oggi passano gli yacht, un tempo c’erano le navi da guerra.

Fortezza Capo d'Orso, Palau

Fortezza Capo d’Orso, Palau
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Oggi è uno dei centri del del turismo sardo e uno dei paesaggi più spettacolari dell’isola, ma negli ultimi due secoli e mezzo il tratto di costa compreso tra Palau e l’arcipelago della Maddalena è stato uno dei punti strategici di quel complicatissimo scacchiere geopolitico che era il Mediterraneo. Le acque che che venivano solcate dapprima dai vascelli sabaudi, francesi e inglesi, dagli incrociatori italiani e infine dai sottomarini nucleari americani, sono oggi dominio incontrastato dei battelli che ripercorrono incessanti la tratta per l’isola di La Maddalena e, durante i mesi estivi, degli yacht e dei barconi carichi di turisti.

Le guerre sono finite e anche qui i militari hanno fatto le valigie, ma l’imponente sistema di fortificazioni che ci ricorda lo spettro sempre presente della follia e dell’aggressività umana è ancora lì, a due passi da hotel, piscine, ville da sogno e villaggi vacanze. Paradisi artificiali il cui numero sembra comunque relativamente contenuto rispetto ad altre aree della Costa Smeralda. Qui la cementificazione selvaggia è stata limitata anche dalle piazzeforti militari.

Tra le tante fortificazioni militari presenti in Sardegna, la postazione di Palau merita un’attenzione particolare sia per le dimensioni, sia per il suo ruolo storico nella difesa da un ipotetico tentativo di invasione dell’Isola. Invasione che non c’è mai stata, ma la fortezza ha continuato ad esistere e ad aspettare, quasi come quella immaginata dallo scrittore Dino Buzzati nel suo romanzo “Il deserto dei Tartari”.

A causa della sua particolare posizione geografica (e conformazione fisica), la Sardegna ha ricevuto l’ingrato nominativo di “portaerei del Mediterraneo”. Ma già più di un secolo prima dell’avvento della guerra moderna, gli strateghi militari avevano già puntato gli occhi sull’isola. Nel 1793, durante il Regno dei Savoia, l’arcipelago della Maddalena e la costa antistante furono teatro di un fallito tentativo di invasione da parte della flotta francese – a cui partecipò tra gli altri il giovane Napoleone Bonaparte – respinto dall’ammiraglio maddalenino Domenico Millelire. Successivamente l’ammiraglio inglese Horatio Nelson, consapevole del pericolo francese, scrisse:

“…se noi possiamo possedere la Sardegna non avremmo più bisogno né di Malta né di altro: essa, quale stazione navale e militare, è la più importante isola del Mediterraneo: possiede alla sua estremità settentrionale il più bel porto del mondo. La Maddalena è a 24 ore di vela da Tolone; copre l’Italia e la sua posizione è tale che il vento favorevole ai Francesi per navigare verso est è egualmente propizio a noi per seguirli [...]. Se io perdo la Sardegna perdo la flotta francese”.

Pertanto, nel 1803, Nelson elegge quel tratto di mare come base della Marina inglese, il che fece desistere i Francesi da ulteriori tentativi di sbarco.

Proprio in questo periodo emerse la necessità di potenziare la rete di vedette costiere con un complesso sistema di fortini e caserme. Nacquero, tra le altre, le fortezze di punta Altura e di Capo d’Orso, e le postazioni di Montiggia e punta Sardegna. Inizialmente di piccole dimensioni, vennero progressivamente ampliate nel corso dei successivi anni di relativa calma.

Galleria, Fortezza Capo d'Orso

Galleria, Fortezza Capo d’Orso

Nel 1851, subito dopo la prima Guerra d’Indipendenza, i Savoia inviarono a Palau il Generale Verani, che esaminò il sistema difensivo ipotizzando lo scenario di una nuova invasione della Sardegna. Giunto alla conclusione che l’asprezza dell’entroterra gallurese avrebbe costituito già di per sé una difesa naturale contro un eventuale nemico, propose di concentrare la presenza militare solo sulla costa, rafforzando selettivamente alcune delle preesistenti installazioni. Venne data la priorità al forte di Capo d’Orso, per la sua posizione che permetteva di spaziare sul golfo di Arzachena e su La Maddalena e Caprera. Tuttavia, a causa della mancanza di fondi deputati al potenziamento delle strutture, nel 1857 il governo sabaudo fu costretto a decretarne l’abbandono.

Trent’anni più tardi, nel 1887, con il cambiamento dello scenario geopolitico locale e l’introduzione di armi sempre più distruttive, si tornò a riconsiderare il concetto di fortificazione costiera: il nuovo obiettivo strategico non era più la difesa della Sardegna, ma il controllo delle Bocche di Bonifacio. Per questo motivo, anche Capo d’Orso venne recuperata e assunse un “ruolo attivo”: il che, tradotto dall’asettico lessico militare, equivale a dire che le installazioni si dotarono di artiglieria in grado di colpire le navi anche su lunghe distanze.

La fortezza venne ampliata con la costruzione di una nuova caserma con capienza di cinquanta uomini, e altri edifici (tra cui scuderie e una polveriera) verso l’entroterra. Venne largamente utilizzata la pietra locale, il granito, che offriva agli edifici sia una grande resistenza, sia una mimetizzazione con il paesaggio circostante. Si riparlò anche di un’invasione che, sempre secondo gli strateghi, avrebbe potuto seguire il tracciato della nuova strada Palau-Tempio, per cui un ulteriore obiettivo del forte era proprio la difesa di Palau. Per l’epoca, queste installazioni rappresentavano l’apice della tecnologia conosciuta in termini di difesa costiera. Fortunatamente, i cannoni tacquero e per la batteria di Capo d’Orso non si presentarono occasioni per partecipare ad azioni belliche.

Durante la Prima Guerra Mondiale il conflitto si tenne al di fuori della Sardegna, ma le fortezze di Palau vennero ulteriormente rinforzate e mimetizzate, nell’eventualità di incursioni aeree. Le ostilità arrivarono invece con la Seconda Guerra Mondiale, in cui Capo d’Orso ricoprì un ruolo primario nella difesa del porto di La Maddalena, di vitale importanza per le navi della Regia Marina italiana. Pesantemente equipaggiata con cannoni e mitragliatrici antiaeree, non riuscì a impedire il bombardamento alleato che nell’aprile del 1943 portò all’affondamento del famoso incrociatore “Trieste”, in rada nelle acque antistanti all’isola.

Dopo la fine della guerra, nonostante la massiccia presenza statunitense nell’arcipelago della Maddalena, tutte le fortificazioni di Palau persero ogni importanza e vennero lentamente abbandonate. Negli ultimi decenni l’area è passata dalla Marina allo Stato, che a sua volta l’ha ceduta alla Regione, senza che al momento vi sia un preciso piano di ristrutturazione o valorizzazione (come è invece avvenuto, ad esempio, per punta Altura).

Oggi le rovine di Capo d’Orso si trovano a poche centinaia di metri dalla celebre roccia omonima, meta di migliaia di visitatori. Per merito della robustezza del granito, la struttura si è preservata in condizioni relativamente buone, nonostante la ruggine e l’umidità abbiano in gran parte minato l’integrità degli elementi in ferro e legno. Aggirandosi tra l’intricato labirinto di gallerie, camminamenti e ponti sospesi che compongono questo imponente scheletro di pietra, si ha l’impressione di trovarsi in un una strana via di mezzo tra un castello medievale e un tempio precolombiano.

Nella parte più interna si trovano il caratteristico ponte di ingresso, le caserme, le scuderie e gli edifici che probabilmente erano le polveriere, ormai invasi dalla macchia mediterranea. Risalendo il sentiero si arriva a quota 109 metri, dove si apre un piazzale che domina l’arcipelago, con le vecchie postazioni dell’artiglieria ancora in attesa di un invasore che fortunatamente non arrivò. E a questo punto, forse, possiamo dire che non arriverà mai.

DOVE SI TROVA: a Capo d’Orso, nei pressi di Palau, di fronte all’isola di Santo Stefano e de La Maddalena. Ci si arriva dal sentiero che parte dalle indicazioni per la roccia dell’orso (l’orso è sulla sinistra, la fortezza sulla destra). Google Maps.

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Surigheddu

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Da cooperativa agricola utopica di fine 800, fino al declino, ecco la parabola di Surigheddu

Surigheddu

Surigheddu

Quella che oggi appare come una grande azienda agricola semi-abbandonata, ha in realtà una storia molto affascinante e complessa, che merita – almeno in parte – di essere riportata nel dettaglio.

La località nota come Surigheddu si trova tra Alghero e Olmedo ed è vasta centinaia di ettari, ma qui raccontiamo di un’area in particolare, quella che cento anni fa era il cuore di un progetto utopistico decisamente originale per la storia sarda.

Siamo nel 1897. Per 100mila lire la signora Maria Lipke vende la tenuta di Surigheddu alla neonata Cooperativa Agricola Italiana. Sono circa 384 ettari. L’ente è nato con lo scopo di colonizzare, bonificare e coltivare le terre italiane lasciate incolte.

Una legge recente permette di costruire delle borgate autonome che, se costituite da 50 o più persone, beneficiano di un’esenzione ventennale dalle imposte. Una legge che sarebbe stata utile qualche anno prima al sardo ma di origini genovesi Giovanni Battista Costa, marchese, deputato, nonchè ricco proprietario terrieri e primo proprietario di Surigheddu. A causa di un finanziamento non restituito il Costa – che pensava a uno sviluppo simile a quello che poi porterà avanti la Cooperativa Agricola Italiana – aveva perduto i terreni di Surigheddu che erano diventati di proprietà della banca svizzera della quale era azionista la Lipke.

Nel 1899 iniziano i lavori di recupero e ricolonizzazione. A capo di tutto c’è l’intraprendente dottor Leon Augusto Perussia, fondatore della Cooperativa Agricola Italiana. Il suo motto, pare, era “iniziativa, scienza, fede”. Tre elementi fondamentali perché anche Surigheddu abbia un futuro. Ma, come giustamente nota Enrico A. Valsecchi nel suo “Nella Nurra del Sud” (principale fonte di questo articolo), serviva anche un po’ di fortuna. E c’era anche quella, rappresentata dalla legge descritta poco fa, arrivata nel posto giusto al momento giusto.

surigheddu2Con 450 lire, pagabili a rate in 15 anni, si diventa soci della cooperativa. Si costruiscono le strade, vengono dissodati 200 ettari di terreni e innalzati i muri di recinzione. Le coltivazioni prevedono una rotazione quinquennale di orzo, grano, avena, granturco e fave. Viene predisposto l’impianto per un allevamento di bachi da seta. L’edificio principale è quello che ospita gli operai. Nella borgata non manca niente: ambulatorio medico, scuola elementare (non solo per i bambini ma anche per gli adulti, visto l’alto tasso di analfabeti), laboratori, magazzini, caseifici, officine e ovviamente anche una chiesa, dal curioso impianto circolare.

In pochi anni la cooperativa si ingrandisce, si inizia a produrre formaggio che viene esportato in tutto il mondo, anche in posti oggi impensabili come l’Africa. Nel 1900 Surigheddu viene ribattezzata Milanello Sardo, anche se tutti continueranno a chiamarla Surigheddu, nome che conserva ancora oggi.

Oggi può sembrare strano, ma uno dei problemi in quel periodo era la manodopera. La Sardegna infatti era quasi spopolata, all’epoca molti emigravano nel nord Africa, dato che in Tunisia si guadagnava fino a quattro volte in più. Inoltre ai sardi non piaceva vivere isolati in campagna: preferivano restare nei loro paesi d’origine. Ma a Surigheddu si crea appunto una comunità in cui non manca nulla e così il problema della manodopera, almeno per il momento, è risolto.

surigheddu3Insomma, va tutto a gonfie e vele. Fino al 1913, quando Perussia viene colpito da un ictus. Morirà due anni dopo, lontano dalla Sardegna e da Surigheddu. Con la sua morte Surigheddu non muore ma cambia un po’ il suo aspetto: gli operai non sono più soci, ma diventano dipendenti con contratti di mezzadria.

Un elemento fondamentale per l’espansione della borgata autonoma doveva essere il trasporto ferroviario. Nella vicina località di Mamuntanas c’era – e c’è tuttora – una piccola stazione, oltre che un’azienda agricola. Portando il treno fino a Surigheddu si sarebbe arrivati a un punto di svolta per quanto riguarda le esportazioni. Non se ne fece nulla e il punto di svolta non arrivò mai.

L’azienda è comunque in buona salute, anche se in una fase di transizione. Dopo la prima guerra mondiale a Surigheddu arrivano i pastori albanesi, abilissimi nel fare il formaggio. Dopo la seconda guerra l’azienda arriva ad avere anche 600 persone impegnate tra i campi e l’allevamento.

Come accadeva spesso anche in altre zone della Sardegna, l’azienda viene notata da un ricco industriale milanese che frequentava l’Isola durante le battute di caccia. Nel 1948 Pietro Saronio acquista Surigheddu con l’idea di darle una seconda vita e allo stesso tempo utilizzarla come sua riserva di caccia. Da qui in poi l’azienda fa parte della neonata Compagnia Agricola Italiana, con sede legale a Sassari, e viene nominato direttore il signor Mario Patta. Quest’ultimo rivoluziona Surigheddu e la fa diventare un’azienda orientata soprattutto all’allevamento.

I terreni vengono bonificati, gli edifici rimessi a nuovo, e Surigheddu diventa un modello di produttività. Nel 1956 l’azienda vince il primo premio a livello nazionale per la produttività. Seguono altri premi e altri successi. Tra il 1968 e il 1970 iniziano i lavori per il lago collinare, fondamentale per combattere i mesi di siccità. L’azienda, tra varie acquisizioni, arriva a superare i 900 ettari di estensione. Nel 1968 però muore Pietro Saronio e si riduce la figura di Patta.

Sono anni di passaggi di proprietà e confusione. Il declino si avvicina.
Surigheddu viene unita alla tenuta di Mamutanas e messa in vendita: insieme le due aziende hanno un’estensione di 1321 ettari. Il complesso viene acquistato dal principe siciliano Fugaldi. Ma i grandi lavori previsti hanno costi troppo alti: si accumulano debiti, la produzione che si ferma, seguono procedimenti giudiziari. Per Surigheddu la fine non arriva ufficialmente, ma viene lentamente abbandonata e nel 1982 è ormai considerata una semplice zona di pascolo per i pastori che portano le greggi dall’interno dell’Isola. Dal 1986 Surigheddu diventa proprietà della Regione Sardegna. Negli ultimi vent’anni sono tante le proposte di sviluppo, recupero o trasformazione dell’area, ma nulla di concreto è stato fatto. Attualmente l’ex cooperativa di Surigheddu è utilizzata da un privato come ricovero per il bestiame.

E’ facile cedere alla tentazione di vedere in Surigheddu un’utopia destinata a fallire, un progetto dal futuro mancato. Tentazione facile, per cui non cederemo. E’ più realistico pensare che le cose abbiano semplicemente un inizio e un compimento: Surigheddu ha avuto il suo quasi secolo di vita e ora semplicemente non esiste più.

(si ringrazia Anna Panti per la preziosa collaborazione)

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DOVE SI TROVA: sulla SP19, tra Alghero e Olmedo. Non si può accedere. Google Maps.

Ex sanatorio Conti

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La periferia sassarese nasconde un vecchio ospedale abbandonato in cui si lottava contro la tubercolosi

Sanatorio Conti, Sassari
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Circondati da moderni palazzi e da un alto muro perimetrale, i ruderi di uno dei più rinomati e efficienti sanatori sardi vengono lentamente consumati dal tempo. È il destino del vecchio sanatorio “Antonio Conti”, nato con l’obiettivo di combattere una delle più insidiose malattie infettive dei nostri tempi. Anche stavolta ci troviamo a raccontare una storia di sogni e sacrifici, ma per una volta l’abbandono racconta un’impresa dall’esito positivo: sta a significare che la lotta a una malattia – la tubercolosi – ha fortunatamente dato i suoi frutti.

Per ripercorrere la strada che portò alla sua istituzione dobbiamo tornare indietro al 1917, anno della scomparsa di Pietro Esperson, giurista, proprietario terriero e filantropo sassarese. Non avendo eredi, decise di lasciare tutti i suoi averi all’Ospedale Civile della città, a patto che venissero utilizzati per costruire un sanatorio che accogliesse le persone colpite dalla tubercolosi. Oggi quasi dimenticato nelle nostre latitiduni, a quell’epoca il “mal sottile” era estremamente diffuso e mieteva ogni anno migliaia di vittime.

L’ospedale si rese conto di non poter gestire quell’eredità, per cui dovette ben presto rinunciarvi. Ma l’ultimo sogno di Esperson non cadde nell’oblio: dopo dieci anni di attesa il suo esecutore testamentario, il prof. Vincenzo Dettori, prese in mano la situazione e si rivolse all’INPS, che allora si occupava anche dell’assistenza e della costruzione di abitazioni per i malati di tubercolosi.

È il 1930: il terreno adatto per la costruzione di un sanatorio venne scelto in una campagna non lontana dal vecchio ospedale psichiatrico di Rizzeddu, presso l’odierna via Livorno. L’anno successivo venne qui edificato un sanatorio che rimase attivo fino al 1956 quando, per far fronte alle necessità di un sempre maggiore numero di ammalati, venne trasferito alcuni chilometri più ad est, nell’area rurale conosciuta come Serra Secca, lungo il vecchio tracciato della Strada Statale “Carlo Felice”.

Il nuovo sanatorio, che veniva ospitato in un preesistente complesso di caseggiati riconvertiti per l’occasione, fu intestato alla memoria di Antonio Conti, direttore sanitario dell’ospedale di Sassari, consigliere comunale e sindaco della città tra il 1891 e 1892. Diventò quindi la sede della Clinica Pneumologica dell’Università di Sassari fino alla sua dismissione.

ospedale-conti2In origine era costituito da 14 padiglioni, collegati tra loro da un lungo corridoio centrale vetrato, ad anello. Nell’edificio principale, sul lato ovest, vi era la sede della direzione, i laboratori e gli alloggi per medici, infermieri e suore. Gli altri caseggiati a un piano erano divisi tra le varie infrastrutture e i reparti di degenza, per un totale circa 300 posti letto (150 uomini e altrettante donne), a cui si aggiunsero altri 70 letti per bambini pochi anni più tardi.

Le stanze di ricovero si affacciavano su una veranda di 30 metri, che a sua volta si apriva su un grande parco alberato, caratteristica rispondente alla regola di ad ogni sanatorio. Vi erano inoltre una chiesa, una lavanderia, un serbatoio idrico, ampi servizi igienici e una centrale elettrica e termica la cui ciminiera rossa, parzialmente diroccata, svetta ancora oggi tra gli alberi.

Nonostante la vasta estensione e l’apparente lusso della struttura, quello che i sassaresi chiamano ancora oggi affettuosamente “lu sanatoriu” non navigava certo nell’oro: “povero di mezzi, ma ricco di umanità”, ricorda oggi lo studioso Gianfranco Trudda nelle sue “Strade della memoria”.

Nonostante ciò, l’amministrazione dell’ospedale si prodigò per ottimizzare le risorse e nascondere le ristrettezze economiche in cui versava, garantendo un servizio di alto livello. Negli anni successivi vennero addirittura inaugurati un bar, un ristorante con tanto di cuochi e camerieri, perfino un cinema, per restituire una parvenza di quotidianità e tentare di rendere la vita meno monotona per chi era costretto a un ricovero che poteva protrarsi anche per lunghi anni.

L’attività del sanatorio prosegue, fino a quando l’introduzione nuovi e sempre più efficaci farmaci antitubercolari, e di norme igieniche adeguate, determinano un netto e drastico calo nell’incidenza di questa temibile malattia.

Siamo ormai sul finire degli anni ’70: col progresso scientifico avanza di pari passo l’estensione urbanistica: il confine tra ospedale e città si assottiglia sempre di più, e gli oliveti della zona devono cedere il passo ai nuovi complessi residenziali. Con la diminuzione del numero di pazienti, il “Conti” appare ora decisamente troppo grande da gestire e deve rinunciare a 5 dei 14 padiglioni, quattro dei quali vengono abbattuti per far posto al nuovo quartiere, e un altro viene riconvertito ad abitazione.

Il resto del complesso (9 caseggiati superstiti, divenuti 8 dopo l’accorpamento di uno di essi col principale) va incontro al progressivo degrado e la struttura inizia a mostrare il peso degli anni: resta in funzione fino alla seconda metà degli anni ’90, quando la Clinica Pneumologica viene trasferita dalla parte opposta della città, nelle Cliniche di San Pietro.

È la fine del sanatorio: solo il padiglione principale è stato restaurato e riconvertito a poliambulatorio attivo ancora oggi, mentre i vecchi caseggiati retrostanti sono ormai abbandonati a se stessi, lentamente inghiottiti dai crolli strutturali e dalla vegetazione del parco che cresce rigogliosa.

Anche qui si ripete il consueto scenario: apparecchiature antiquate, mobili, registri e archivi giacciono confusamente e frettolosamente accatastati nei corridoi e negli stanzoni in cui molte persone sono morte, ma molte di più sono tornate a vivere.

DOVE SI TROVA: A Sassari, in via Carlo Felice, in località Serra Secca, all’incrocio con via Vardabasso. L’area è recintata e l’accesso è sconsigliato. Google Maps.

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Villa del ponte Diana

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Un misterioso edificio testimone del passato industriale del Coghinas

Al tramonto, osservandolo da lontano, appare come uno strano scheletro rosa. Secondo le carte IGM si tratta della “cantoniera Pedredu”, che si trova però di fronte a questo strano edificio.Noi, nel dubbio, abbiamo deciso di chiamarlo villa del ponte Diana,  perché è certo che questo edificio abbandonato è legato alla storia del ponte.

Villa ponte Diana, località Pedredu (Oschiri)

Villa ponte Diana, località Pedredu (Oschiri)

Il ponte Diana oggi sembra un viadotto come tanti, ma a un occhio più attento svela numerosi particolari che ci riportano agli albori dell’industrializzazione della Sardegna. Opera imponente e ambiziosa, costruita nei primi anni ’20 dall’ingegner Diana, permetteva di superare la valle del fiume Coghinas costituendo il punto cardine dell’allora trafficata strada Oschiri-Tempio: un tortuoso tragitto di oltre 30 chilometri, armonicamente districatosi tra le solitarie foreste del massiccio del monte Limbara.

La struttura del ponte è costituita da otto piloni e un grande arco centrale. Dopo la successiva realizzazione della diga del Coghinas la sua austerità appare oggi molto meno apprezzabile, a causa del livello dell’acqua che lo sommerge fino a pochi metri dal piano stradale. Ma le storie del ponte e della diga sono intimamente connesse tra loro: un’opera così importante era stata pensata proprio in vista della realizzazione della diga situata a pochi chilometri di distanza. Il ponte Diana facilitava il trasporto dei materiali necessari per la sua costruzione, agevolandola e abbreviandone i tempi. Inoltre nella struttura sono inserite le tubazioni che portavano l’ammoniaca prodotta nella centrale idroelettrica direttamente agli stabilimenti della Sarda Ammonia di Oschiri.

La complessità del progetto rese necessaria la presenza e l’alloggiamento stabile dell’equipe direttiva per il monitoraggio dei lavori. Per tale motivo, venne realizzata la grande villa in stile Liberty sulla collina che domina il ponte, in località denominata Pedredu. Oggi restano solo i ruderi, ma ciò che che colpisce è la sua struttura bizzarra e allo stesso tempo sfarzosa, completamente diversa dalle innumerevoli case cantoniere disseminate sul territorio sardo.

Costruita su tre piani, con un livello interrato, tutto il contorno superiore è ornato da un fregio, che forse è l’elemento che più di ogni altro rende caratteristico questo edificio. Le condizioni in cui versa sono precarie, quello che rimane è poco più di uno scheletro: la struttura esterna sembra ancora reggere allo scorrere del tempo, ma non c’è più traccia di infissi e i piani superiori risultano inaccessibili per il crollo delle scale.

Purtroppo non conosciamo altri particolari sulla storia di questo edificio dal fascino misterioso, e soprattutto sul motivo di tanto sfarzo per quella che ipotizziamo fosse una costruzione di utilizzo temporaneo. Non è noto se nelle intenzioni dei costruttori sarebbe dovuta diventare qualcosa di più, ad esempio una residenza fissa: sappiamo solo che verso la fine degli anni ’30 la villa era abbandonata già da diverso tempo.

Altri due piccoli edifici caratterizzano l’area di Pedredu: il primo è quello che rimane della vecchia stazione di pompaggio dell’ammoniaca, oggi utilizzata come rifugio per animali da pascolo. E’ ancora possibile seguire il percorso delle tubature che, fuoriuscite dal ponte Diana, si snodano tra la vegetazione e proseguono in direzione di Oschiri. Il secondo edificio è la “cantoniera ponte”, abbandonata più tardi rispetto alla villa, dove risiedeva il custode della stazione di pompaggio con la famiglia.

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Dove si trova: all’inizio del ponte Diana, sul lago Coghinas, lungo la SS597. Google Maps.

Ex discoteca di Tempio

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Un edificio alieno nel paesaggio di Tempio: era un albergo e una discoteca

 

L'ex discoteca di Tempio Pausania

L’ex discoteca di Tempio Pausania

Percorrendo la SS127, poco prima di arrivare a Tempio Pausania, c’è qualcosa di strano che salta subito all’occhio. E ‘il classico particolare fuori posto,  un particolare alto alto 6 piani dall’aspetto insolito e dalla pianta esagonale. Sembra un’astronave aliena caduta per caso su una collina, all’entrata di Tempio, in un paesaggio totalmente estraneo alla sua natura, soprattutto la mattina presto, avvolta dalla nebbia.

Era una discoteca, e prima ancora un albergo.

Abbiamo deciso di chiamarlo Ex Kiss perché questo è il nome con cui viene ricordato maggiormente nella zona, essendo stata una discoteca cult per tutti quelli della zona che erano giovani negli anni 80 e 90. L’edificio è stato costruito tra il 1969 e il 1971 da un privato di Cagliari, inizialmente come “albergo delle fonti di Rinaggiu”.

C’era una piscina e un belvedere all’ultimo piano, e nei primi anni la struttura dicono che funzionasse bene. Poi fallisce e il proprietario l’abbandona. Dunque passa nelle mani della Regione che dà in gestione il piano terra e il primo piano, mentre i piani superiori restano chiusi. Nei primi anni 80 nasce così la discoteca Kiss, un punto di riferimento per i giovani della zona fino al 1998. Nel 1983 la zona viene colpita dal terribile incendio del 28 luglio, che interessa proprio la collina di Curraggia dove si trova la struttura (morirono 9 persone).

Nel frattempo, negli anni di attività della discoteca Kiss, nei piani superiori del palazzo si era instaurato un senzatetto diventato custode non ufficiale della struttura, unico guardiano contro vandali, piccioni e umidità. L’uomo fa quel che può, soprattutto contro queste ultime due calamità, fino alla metà degli anni 90, quando muore – o almeno così si racconta – proprio dentro la strana struttura.

La discoteca cambierà varie volte nome e gestione: prima Millennium, dal 1998 al 2003, il periodo più florido, poi per qualche anno si chiama Karawentu, più o meno fino al 2005. In seguito rimane chiusa qualche anno e, dal 2009 al 2010, la nuova gestione si chiama Up n’down. Da qui in poi arriva la vera decadenza e il vero abbandono: il piano terra e il primo piano vengono quasi completamente smantellati, i piani successivi depredati e in parte distrutti. Ora ogni recupero appare improbabile.

L’edificio è decisamente abbandonato e pericolante: ogni tanto cade un cornicione o una ringhiera. Ci dicono che il comune di Tempio vorrebbe demolirla, un po’ perché si tratta di una struttura pericolante e non protetta, un po’ perché resta una costruzione totalmente illogica e cacofonica nel paesaggio tempiese. Ma proprio quest’aspetto è parte del fascino architettonico perverso che questa strana creatura provoca negli occhi di un visitatore esterno. E colpisce pensare che per decenni i giovani del posto hanno ballato con 5 piani abbandonati sopra la testa.

DOVE SI TROVA: all’entrata di Tempio Pausania, lungo viale Giovanni XXIII, sulla collina di Curraggia. La proprietà è privata, anche se non si capisce bene di chi, e comunque la visita è altamente sconsigliata in quanto la struttura è pericolante. Google maps.

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La Cupola

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La Cupola, uno strano angolo di Paradiso oggi dimenticato e abbandonato, realizzato dal vulcanico architetto Dante Bini e in passato appartenuto a Michelangelo Antonioni

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La Cupola, Costa Paradiso.
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Siamo in Costa Paradiso, nel versante della Gallura meno noto che guarda a occidente. Un enorme villaggio turistico esteso per chilometri, simbolo del turismo d’élite ma anche di speculazione edilizia e stravolgimento del paesaggio. Le costruzioni paiono soffrire questa accusa, e si mimetizzano, sembrano scogli sulla terra: tanto verde, pietra e colori locali, strade che seguono il pendio, un traffico ordinato e tranquillo. Tutto sorvegliato e organizzato anche durante l’inverno, con la manutenzione che non si ferma mai.

Ma qualcosa non si mimetizza affatto. All’estremo settentrionale dell’insediamento, al termine di un dedalo di vie con davanti solo la macchia e il golfo dell’Asinara, due oggetti non identificati spiccano nel contesto, dalla strada come dal satellite. Due cupole di cemento che ricordano un’esposizione internazionale o una metropoli futuristica, ma sono atterrate in un villaggio turistico mediterraneo. A vederle così grigie, trascurate e vuote, si pensa subito a un ecomostro, persino a un abuso, qualcuno invocherebbe le ruspe magari davanti alle telecamere. E allora come mai quest’opera dimenticata è ancora studiata nelle università di tutta Europa, e persino i giornali stranieri ne denunciano la rovina?

Perché la grande villa abbandonata era dell’acclamato regista ferrarese Michelangelo Antonioni. E non ha mai cercato di nascondersi, perché rappresentava il progresso e fu costruita, per impressionare e conquistare la sua compagna Monica Vitti, dal vulcanico Dante Bini, giustamente noto come l’architetto delle bocce o l’architetto delle piramidi.

Si tratta di una tecnica costruttiva estremamente innovativa per l’epoca dei ruggenti anni sessanta, e ancora in uso: il Binishell. Questa cupola, come la sorella più piccola costruita affianco, è sorta in brevissimo tempo grazie a un’unica gettata di cemento armato, letteralmente gonfiata e sollevata dalla pressione dell’aria al suo interno. Quando il cemento si solidifica, si bucano le pareti ritagliando le aperture desiderate, e il più è fatto, quasi sempre senza rischi. Per la Costa Paradiso furono anni di jet-set: pittori, artisti ed editori, ma soprattuto attori e registi. Dal film del ‘64 dello stesso Antonioni, il Deserto Rosso girato nella vicina Budelli che gli fece scoprire l’impresario e proprietario, a Black Stallion prodotto nel ‘79 da Francis Ford Coppola. Dalla villa due sentieri ricavati nella roccia conducono al mare e a un piccolo stagno, conche e torrenti, addirittura un piccolo fiordo e un’isoletta, segno di una natura ancora stupenda anche se calpestata, specie nel passato.

Ma le relazioni finiscono, nel mondo dello spettacolo spesso bruscamente: ex e amanti rimasero ancora per alcuni anni in Costa Paradiso vivendo nelle case vicine, poi partirono tutti. La villa-cupola ovoidale, casa a uovo o cupola di Antonioni fra i tanti nomi che ha ricevuto, passò di mano in mano e lentamente iniziò il suo declino. Interni e arredi ancora raccontano del lusso che fu, gli esterni essenziali e privi di qualsiasi protezione di sicurezza iniziano ad essere aggrediti dalle intemperie. Lentamente gli infissi si scheggiano e spezzano, i ferri del cemento armato si scoprono, le piante crescono floride, dal ruvido intonaco sbuca la pelle aliena. Oggi, nonostante l’abbandono, la cupola viene ancora frequentata, sebbene è evidente che non ci sia più un proprietario a prendersene cura.

Nel mentre le istituzioni hanno lanciato il nuovo brand territoriale di Costa Rossa, e per quanto resisterà il Binishell non è dato saperlo: come denunciato dai giornali tedeschi, tutto è nelle mani di una misteriosa neapolitanische familie.

Dove si trova: nord della Sardegna, più precisamente Costa Paradiso, sul mare. Google maps.

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Stabilimento Sarda Ammonia

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Stabilimento Sarda Ammonia: una storia fatta di avanguardia industriale, premi Nobel, rivolte popolari, banditi e aerei americani. Ma tutto finì nel 1957. Da allora qui regnano il silenzio e i belati delle pecore.

Siamo alla stazione di Oschiri, comune del Monteacuto affacciato sul lago del Coghinas. Oltre i binari, degli stupendi edifici reclamati dalla natura e da qualche allevatore, ecco i resti della Società Sarda Ammonia e Prodotti Nitrici. A tanti la “chimica sarda” fa pensare a Porto Torres, Sarroch, Ottana, Portovesme: in realtà è una storia molto più antica nata anche sulle sponde del Coghinas, grazie alla sua diga.

Stabilimento Sarda Ammonia, Oschiri. VAI ALLA GALLERY

Stabilimento Sarda Ammonia, Oschiri. VAI ALLA GALLERY

Dove un tempo sbuffavano i macchinari, oggi si sentono solo muggiti, latrati e belati. Questa è la fine di una piccola grande storia industriale, uno dei soli nove stabilimenti italiani che durante il fascismo garantivano al Paese la produzione di nitrati, ammoniaca, solfati, concimi e fertilizzanti. Un pregevole esempio di sinergia autarchica e corporativa: come racconta Domenico Schintu la vicina centrale idroelettrica forniva l’elettricità e l’ammoniaca, pompata attraverso 14 chilometri di tubazioni che transitavano nella stazione del ponte Diana. E qui in località Lugheria si producevano acido nitrico, solforico e solfato ammonico, per una potenzialità complessiva di 10 tonnellate al giorno e 3500 tonnellate all’anno di azoto.

La Società venne concepita nel 1923 e fondata l’anno successivo sotto l’egida della Montecatini, seguendo i lavori di Giacomo Fauser e Luigi Casale, i primi a studiare e introdurre in Italia il processo di sintesi industriale dell’ammoniaca brevettato dai chimici tedeschi. Tre anni più tardi, nel 1927, la costruzione della diga del Coghinas diede una spinta innovativa al territorio di Oschiri, e i dirigenti della Sarda Ammonia decisero di costruire la fabbrica in un terreno a pochi chilometri di distanza, acquistato per 180.000 lire da un ricco possidente locale, affidandone la direzione al dottor Guglielmo Fadda. Altro protagonista centrale di questa nascente realtà fu l’ingegnere Giulio Natta, che frequentò assiduamente gli stabilimenti e la centrale del Coghinas per completare gli studi che gli valsero il premio Nobel per la chimica nel 1963.

La Sarda Ammonia operò per decenni, fortemente voluta e difesa dagli stessi oschiresi, che protestarono duramente quando la dirigenza tentò di spostare la produzione a Olbia: durante le prime fasi dei lavori, alla notizia del trasferimento la popolazione reagì bloccando con macigni alcune strade e tagliando i collegamenti telefonici. Le forze dell’ordine risposero inviando rinforzi dei Carabinieri e anche una compagnia di Fanteria. La protesta venne interrotta e ci furono vari feriti.

La capacità di dar lavoro fino a 300 dipendenti, l’indotto e la realtà industriale ed operaia ampliarono gli orizzonti della locale realtà agropastorale. Lo stabilimento venne infatti inserito in un sistema di stretta correlazione con la diga stessa, che forniva le materie prime per la sintesi, e garantiva una riserva d’acqua contro le frequenti siccità; inoltre, le grandi quantità di fertilizzanti e concimi chimici prodotti ottimizzarono le potenzialità dei fertili terreni della Sardegna settentrionale. Infine godeva della posizione strategica sulla linea ferroviaria per Olbia e verso gli altri principali scali sardi.

L’inizio dell’attività non fu semplice: vi furono problemi connessi ai macchinari (i compressori Demag non avevano una resa ottimale), al metodo sperimentale ancora da mettere a punto e al costo dell’elettrolisi. Col passare degli anni tuttavia la produzione crebbe, e al suo apice il complesso venne organizzato in tre blocchi distinti: l’impianto acido solforico, il reparto solfato ammonico e l’impianto pilota per terre decoloranti.

La grande popolarità di cui godeva la Sarda Ammonia diede origine persino a dei miti: come racconta egli stesso nei suoi diari, Amerigo Boggio Viola (il leggendario impresario-alpinista-fotografo biellese dei primi del Novecento, incaricato alla costruzione e alla gestione degli impianti) venne bloccato da dei banditi mentre portava i salari per gli operai; venuti a sapere chi fossero i destinatari, i malviventi lo lasciarono andare.

Gli anni della Seconda Guerra Mondiale rappresentarono un presagio per il lento ma inesorabile declino dell’attività: già nel 1938-39 Natta vi perfezionò un impianto per la sintesi di metanolo, componente necessario per la produzione di un potente esplosivo, la pentaeritrite. Di conseguenza, nonostante il segreto militare, come ricorda Paolo, figlio di Guglielmo Fadda, nel 1943

“una squadriglia di aerei americani mitragliò lo stabilimento e si accanirono sugli enormi serbatoi che normalmente erano pieni di ammoniaca, ma che per nostra fortuna erano in manutenzione ed erano stati riempiti di acqua che si sparse per tutta l’area. Se ci fosse stata l’ammoniaca saremmo sicuramente morti tutti, ma ci fu solo un grande allagamento”

Sempre nel 1943, la Sarda Ammonia viene inglobata in un unico ente, la Società Elettrica Sarda, che solo tre anni più tardi diverrà a sua volta parte integrante della neonata Sarda Prodotti Chimici.

Nel dopoguerra la rinascita economica impone cambiamenti con cui lo stabilimento non riesce a stare al passo: i consulenti della Regione rilevano che i macchinari sono ormai antiquati rispetto ai nuovi standard, che prevedono un minore consumo di energia per quintale di solfato ammonico prodotto. Nel 1953 al fattore umano si aggiunge quello naturale: una grave siccità protrattasi negli anni successivi riduce sensibilmente l’attività dello stabilimento. È il colpo di grazia che sancisce, nel 1957, la sua chiusura definitiva, il parziale smantellamento e l’abbandono da parte della Montecatini. Iniziò l’emigrazione gli oschiresi che partirono in massa, coi pochi rimasti iscritti alle scuole per perito chimico.

Ancora oggi, aggirandosi tra i ruderi, emerge l’imponenza dell’antica avanguardia industriale. Una volta attraversati i binari ci si ritrova catapultati nel passato, ai piedi della vecchia sede amministrativa sul cui cornicione capeggiano le belle ma sparute lettere superstiti della scritta “Società Sarda Ammonia e Prodotti Nitrici”.

Risalendo la collina si incontra una grande villa, dalle cui finestre si ammira una panoramica dei ruderi dell’impianto. Infine, lasciando i capannoni ora popolati da animali da allevamento, e seguendo la ferrovia verso ovest, compaiono tra gli alberi i resti di un edificio in mattoni rossi anomalo in quel panorama: si tratta forse dell’impianto acido solforico con i suoi forni, che l’inarrestabile scorrere del tempo ha mutato e reso più simile a una enigmatica cattedrale nel deserto.

Si ringrazia Antonello Orani per la collaborazione.

DOVE SI TROVA: oltre la stazione di Oschiri. Google Maps

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Polveriera di Listincheddu

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Polveriera di Listincheddu: un tranquillo angolo di campagna dove un tempo venivano custodite pericolose armi chimiche

Un grande complesso di edifici ottocenteschi immersi nel verde, in uno scenario più simile a un campo di boy-scout che a una struttura militare.

Capannoni con gli ornamenti semplici ma eleganti tipici dell’epoca, oculi sulle facciate e finestre incorniciate di giallo, persino un riposante angolo bucolico con una sorgente.

Riesce difficile immaginare che, in questa valle a due passi da Ozieri, la polveriera di Listincheddu fosse uno dei principali depositi di armi chimiche nel territorio italiano fino al 1976.

Anche il nome della zona, piccolo lentischio, non lascia presagire nulla del suo passato. La natura infatti continua il suo corso, riprendendo lentamente possesso di caserme e magazzini: muschi e felci conquistano i muri e le travi corrose dall’umidità, rovi e cespugli invadono gli stanzoni che fino a qualche decennio fa custodivano carichi di morte e distruzione di massa.

Edificata alla fine dell’Ottocento ai piedi del monte Littu, entrò ufficialmente in funzione dopo il regio decreto del 1896 (pdf) che ne stabiliva la funzione di deposito di esplosivi da guerra. Una polveriera come tante, con una decina di caratteristici edifici prudentemente distanti tra loro, circondati da un alto muro di cinta e sormontati ancora oggi da un’inquietante torretta di guardia sulla sommità della collina.

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clicca l’immagine per ingrandire

La svolta si ebbe tra gli anni Trenta e Quaranta, quando la dittatura fascista intraprese la produzione su vasta scala di armi chimiche, e anche qui sarebbero state depositate tonnellate di barili di sostanze tra cui i famigerati fosgene, iprite, arsenico e cloro. Durante il secondo conflitto mondiale, complice il segreto militare ben custodito, Listincheddu non fu bersaglio dei bombardieri alleati. Difficile e spaventoso immaginare le conseguenze in caso contrario.

Nel dopoguerra la sua attività di stoccaggio sarebbe proseguita, con l’aggiunta di ulteriori quantità di armi chimiche provenienti da altri depositi. Solo nel 1976 questo pericolo chimico si allontanò definitivamente da Ozieri: la base venne dismessa e bonificata, e tutto il contenuto trasferito a Civitavecchia e in altre località per il teorico smaltimento. Così Listincheddu è uscita della storia militare, ma in attesa della sua riconversione sembra che alcuni nostalgici non abbiano compreso la lezione e gli piaccia ancora giocare alla guerra, come spesso accade nei luoghi abbandonati.

Nel 2006 l’Esercito ha ceduto il terreno alla Regione, e da allora Listincheddu aspetta paziente un recupero che preveda la creazione di un parco, e di un’area d’addestramento per i Vigili del fuoco, in quest’angolo di campagna tornato alla vita. Perfetta ironia della sorte per un regime nazifascista che intendeva usare gli italiani come cavie da laboratorio.

DOVE SI TROVA: nei pressi di Ozieri, ai piedi del monte Littu. Google Maps

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Hotel Hermitage

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Hotel Hermitage, un villaggio vacanze abbandonato sul Monte Tinnari è un testimone della storia d’amore (non sempre fortunata) tra la Sardegna e il turismo

Quando una storia d’amore finisce, magari dopo una lunga convivenza, capita di ritrovarsi con scatoloni pieni di oggetti che improvvisamente assumono un significato che fino al giorno prima non avevano.

Col passare del tempo restano solo loro, assieme ai ricordi, a testimoniare che tra quelle pareti, un tempo, c’è stato l’amore. Uno spazzolino, qualche foto sbiadita, quasi sempre delle scarpe. Ma se non ci sono nemmeno i ricordi, cioè se viene a mancare anche la memoria, una storia d’amore finita potrebbe non essere mai esistita, perché non ci sono prove, ma solo degli oggetti senza senso. Ed è così che si presentano alcuni luoghi abbandonati.

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L’albergo abbandonato del Monte Tinnari. VAI ALLA GALLERY

Nell’Hotel Hermitage, sotto uno spesso strato di decadenza, sono sparsi gli indizi di un passato fatto di divertimento, spensieratezza, allegria. Eppure gli indizi non sempre sono sufficienti a costituire delle prove. Sarà stato davvero così?

Non lo sappiamo. Il nome stesso, Hermitage, deriva da eremitaggio, eremo, ovvero quei luoghi isolati e inaccessibili dove gli eremiti andavano a ritirarsi. Era forse questo lo scopo del villaggio vacanze del Monte Tinnari? Qui non si veniva per godere dell’azzurro mare della Costa Paradiso e dei trenini notturni a base di hit anni 80, ma forse per riflettere e a meditare?

Pensare a una Sardegna senza più turisti è difficile, quasi impossibile. Ma visitando l’Hotel Hermitage e le strutture vicine questo pensiero diventa realtà, senza lasciare più spazio all’immaginazione.

Siamo sul Monte Tinnari, dove lo sguardo domina Costa Paradiso e l’Isola Rossa. Alla macchia mediterranea è bastato un ventennio, per riprendersi ciò che è sempre stato suo. Perfino le strade sono state inghiottite e cancellate, e gli edifici in uno strano stile alpino ora sono sicuramente ben mimetizzati nel paesaggio.

Quantomeno gli edifici superstiti, perché le intemperie hanno iniziato da tempo il loro processo di distruzione creativa: per primo cede il legno, con alcuni bungalow rasi al suolo. Anche pietra e cemento non se la passano bene, col crollo persino della torretta d’osservazione in cima al monte. Meglio se la cavano le case, dove stanno cedendo “solo” ballatoi e spioventi.

Ma il cuore del villaggio, con sale, terrazze e cucine, conserva intatto il suo fascino da balera: possiamo solo immaginare l’animazione serale, i menu da colonia, le storie d’amore passionali e violente, e i ricordi affidati a una cartolina che racconta di una esotica Costa dei Tinnari.

Difficile scoprire le cause di questo abbandono: avendo chiuso i battenti prima dell’era di internet, solo qualche archivio burocratico o fiscale potrebbe fare chiarezza. Per abbandonare una proprietà del genere, in un luogo del genere, probabilmente saranno intervenuti fallimenti, eredità e tribunali. Ma per quanto ancora potrà aspettare questo monumento all’eclettismo architettonico, dove lo stile smeraldino incontra la baita, dove gallerie e rimesse di cemento sfiorano il granito, in questa frazione remota spesso teatro di incendi dolosi?

Un volantino sul pavimento parla della fantastica stagione del 1986. Forse è proprio questa la firma dell’assassino? L’Hotel Hermitage non poteva sopportare che i riti, gli usi e le abitudini degli anni ’80 potessero finire e ha preferito chiudere prima, non reggendo al crollo di un’era, preferendo restare così, com’è sempre stato. Dopotutto qui il Muro, anzi i muri, sono ancora in piedi. Altre voci ci dicono che il villaggio vacanze è rimasto attivo fino al 2000.

E sulle pareti corrose dal tempo, tra quadri elettrici e un cuore di legno, troviamo anche un articolo appeso forse da qualche cameriera che sognava la bella vita dei vip: facce sorridenti mangiucchiate dal tempo, parole quasi illeggibili, frasi misteriose, tra le quali oggi spicca solo “…e più felici del mondo”.


DOVE SI TROVA: nord della Sardegna, Monte Tinnari, nel comune di Trinità d’Agultu e Vignola (OT). Google Maps.

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Vetreria Sardinia Crystal

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L’ex vetreria Sardinia Crystal: era un’eccellenza mondiale, oggi è abbandonata e in frantumi

Attraversiamo la zona industriale San Marco di Alghero dove, nel rispetto dell’identità e della tradizione sarda, tutto sembra deserto o abbandonato. E la Sardinia Crystal, società commerciale della Sarda Cristalli, non fa eccezione.

Avviato nel 1989 nel polo chimico di Porto Torres e poi trasferito lungo la Strada dei Due Mari, il lavoro dei mastri vetrai era apprezzato in tutto il mondo, tanto che sino all’80% della produzione veniva esportata. Pezzi unici firmati, astratti o ispirati al territorio, spesso personalizzati con una produzione orientata al cliente e tuttora in vendita a cifre significative nel grande mercato virtuale. Una delle sole quattro aziende italiane a realizzare cristalli artistici col sistema a “mano volante”, apprezzata al punto da diventare un’attrazione turistica con tanto di esposizione e bambini in visita alla fornace.

Ma alla fine degli anni Novanta la crisi dei beni voluttuari ha colpito duramente nei Paesi arabi, Canada, USA e Giappone. Quella che era uno dei tanti esempi dello straordinario fiuto per gli affari della Regione Sardegna, nata ad opera dell’Ente Minerario Sardo (EMSA), venne privatizzata nel 2001, sopravvisse ancora fra scioperi, proteste e serrate, venendo discriminata persino dal resto dell’artigianato sardo, e dichiarò fallimento nel 2004.

Oggi si cammina sui cristalli infranti, sui cocci e sugli scarti e, ironia della sorte, ogni singolo vetro è in frantumi. Il fuoco che aveva creato questi capolavori, lo ha distrutto con decine di roghi appiccati in ogni angolo dello stabilimento per sciogliere e recuperare il metallo. Archivi e documenti sono sparsi ovunque, rifiuti di ogni genere arrivati da chissà dove stanno alimentando un vortice di denunce e cause giudiziarie. Questa piccola “Swarovski Made in Italy” o “Murano sarda” ha chiuso per sempre e con lei è stata la fine del polo siliceo della Nurra.

DOVE SI TROVA: ad Alghero, nella zona industriale San Marco. Google Maps

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Foresta di Burgos

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Gli uomini che fissavano gli equini: il vecchio centro di addestramento della foresta di Burgos

Il vecchio Centro di Allevamento Governativo
Il vecchio Centro di Allevamento Governativo.
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Nel silenzio dei boschi del Goceano, a tratti spezzato da ronzii e muggiti, si nascondono da un secolo i resti di un complesso militare dedicato all’addestramento della specie umana e all’ammaestramento di quella equina.

Si tratta del vecchio Centro di Allevamento Governativo, un piccolo villaggio fantasma circondato da edifici desolati in località Foresta Burgos, rivestito da un’atmosfera spettrale e inquietante nonostante l’accecante luce estiva.

A dispetto del suo isolamento, anche questo selvaggio angolo di montagna ora dimenticato ha seguito il corso della Storia. I primi insediamenti moderni sorsero a fine Ottocento, con una piccola azienda agricola locale. Poco più tardi il Regio Esercito effettuò dei sopralluoghi nell’area e, proprio per la sua posizione isolata ma allo stesso tempo pianeggiante, la ritenne adatta all’allevamento dei cavalli per Polizia e Carabinieri. Nel 1906 venne quindi istituito il Centro di Allevamento Governativo che, dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, perfezionò l’attività preparando gli animali agli scenari bellici, come traino e assalti di cavalleria.

Quasi cinquant’anni più tardi il galoppante progresso tecnologico rese evidente che il ruolo degli animali era ormai esaurito, e le corse fra trincee e campi di battaglia cedettero il terreno a quelle più pacifiche ma comunque brutali sui prati degli ippodromi. Tra il 1954 e il 1959 la struttura venne infatti abbandonata dai militari e si ebbe il passaggio di consegne all’Istituto di Incremento Ippico di Ozieri, sotto la cui egida l’allevamento equino prosegue fino ad oggi, sia pure in condizioni di incertezza e precarietà. Di recente le forze dell’ordine hanno ripreso in mano la gestione della zona, con l’intento di ricreare un Centro Ippico dei Carabinieri.

All’apogeo Foresta Burgos contava numerosi edifici, molti dei quali sono stati oggi distrutti o parzialmente riqualificati. Il nucleo originario del villaggio, sopravvissuto allo scorrere del tempo, è ancora oggi visitabile ed è costituito da quattro caseggiati abbandonati situati a sud intorno alla chiesetta di San Salvatore.

I due di maggiori dimensioni, noti come Palazzo Direzionale e Palazzina, conservano relativamente intatti infissi e travi lignee, e racchiudono particolari solo in parte connessi con lo stile dell’epoca: caminetti e cappe fumarie dalle forme bizzarre, intonaci dai colori accesi e contrastanti tra loro, scarni fregi, improbabili e quasi vezzose decorazioni si accompagnano al consueto campionario di rifiuti urbani, sedie, scarpe e vecchie valigie rigorosamente vuote. A poca distanza si trovano inoltre un altro villone residenziale a due piani e alcune vecchie scuderie.

Come buona norma nella Sardegna abbandonata, la natura non si è lasciata ammansire e gli animali selvaggi del bosco si riprendono i loro spazi, in un silenzio per nulla d’ordinanza.

Dove si trova: lungo la strada statale n.43, comune di Burgos (SS). Google Maps.

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Diga Santa Chiara, casa del capocentrale

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Una casa che appare e scompare, uno scrigno di segreti sotto il lago Omodeo

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Casa sommersa, lago Omodeo,
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Il lago Omodeo è uno scrigno che sotto l’acqua nasconde vari tesori: tombe di giganti, domus de janas, un insediamento prenuragico, una foresta tropicale fossile con alberi di 20 milioni di anni, ossa di animali estinti, i resti di un paese ricostruito altrove e anche una casa a due piani che appare e scompare a seconda del livello dell’acqua. Sembra che questo edificio non voglia abbandonare del tutto la superficie, anche se il suo tempo è passato da un pezzo ed è legato alla storia della vecchia diga di Santa Chiara. Che comincia circa un secolo fa.

Nel 1917 iniziano i lavori che porteranno alla realizzazione di quello che per decenni sarà considerato il più grande lago artificiale d’Europa. La progettazione è affidata all’ingegnere Angelo Omodeo, colui che darà il nome al lago, e la costruzione all’ing. Giulio Dolcetta. Noi forse avremmo preferito Lago Dolcetta, ma non facciamo polemiche. Comunque nel vicino villaggio di Santa Chiara c’erano sia via Omodeo sia piazza Dolcetta, quindi va bene così.

Lo scopo di questa importante opera era quello di produrre energia elettrica e di sfruttare le acque del fiume Tirso per l’irrigazione del Campidano. Ma prima di iniziare i lavori, c’era un problema da risolvere: Zuri, un piccolo borgo di circa venti case che si trovava a 88 metri sul livello del mare, mentre l’acqua del lago sarebbe arrivata a 105 metri. Fatti due calcoli, Zuri sarebbe annegato. Quindi,  per evitare che Zuri diventasse la piccola Atlantide dell’Omodeo, ancora prima dell’inizio dei lavori ufficiali si procedette alla demolizione dell’abitato.

Ci volle quasi un mese per buttare giù le case (i cui resti, in parte, dovrebbero trovarsi ancora là sotto) per poi ricostruirle in una altura vicina, al sicuro, e qualche anno in più per risolvere un altro problema: la chiesetta romanica del 1291. Per quanto l’idea di una chiesa sommersa sia sempre suggestiva, si decide di smontarla e rimontarla mattone per mattone, un processo che si chiama anastilosi (qui una foto della chiesa prima e dopo), e oggi potete ammirarla all’entrata del piccolo borgo in tutta la sua integrità.

Risolto il problema Zuri, i lavori della Società Imprese Idrauliche ed Elettriche sul Tirso vanno avanti fino al 1923, e nell’aprile del 1924 ci fu l’inaugurazione ufficiale della diga con tanto di visita del re.

DSCN9083A valle della diga venne costruita la centrale idroelettrica, e grazie ad essa Ulà Tirso fu il primo paese della Sardegna ad avere l’energia elettrica. All’epoca, e per molto tempo, l’Omodeo era il lago artificiale più grande d’Europa, come tutti i bambini sardi, per decenni, hanno imparato a memoria sui libri di scuola.

Ma arrivò per la vecchia diga il momento di andare in pensione: nel 1997 venne inaugurata la nuova diga, più alta e dal bacino più capiente, che comportò un innalzamento del livello dell’acqua. Così la valle venne sommersa e tutto, animali estinti, foresta tropicale, resti di Zuri, sparì per sempre sotto l’acqua. O quasi.  Ogni tanto, quando il livello dell’acqua cala, viene fuori il passato: la foresta pietrificata, qualche nuraghe, pali della luce e anche quella che viene chiamata la casa del capocentrale o da alcuni “casa del custode”.

In realtà in questa casa erano ospitati il capocentrale, il vicecapo e le loro famiglie. Si trova proprio sotto la vecchia diga, di fronte al ponte che la sovrasta. Dall’alto gli automobilisti probabilmente non notano nulla, anche perché per buona parte dell’anno l’edificio è quasi del tutto coperto dall’acqua. Era una bella villa a due piani circondata da un giardino con un laghetto, un frutteto e delle palme.

Sul fronte opposto, più in alto e quindi non scomparsa sotto l’acqua, si trova un altro edificio, oggi decisamente vandalizzato, che in passato ospitava i carabinieri di Ulà Tirso e successivamente i custodi della diga. Dopo l’incidente del Vajont del 1963 le misure dei sicurezza nelle dighe aumentarono. I custodi della diga Santa Chiara facevano 3 turni da 8 ore per coprire l’intera giornata ed effettuare quotidianamente i controlli di sicurezza.

E’ anche per questo che ogni mattina alle 10 in tutte le zone a rischio (praticamente tutto l’oristanese) suonavano le sirene usate in precedenza solo durante la Seconda guerra mondiale: era un test che aveva il significato di “è tutto ok”. Se le sirene avessero suonato in un altro orario avrebbe significato che era successo qualcosa alla diga e che i paesi vicini al Tirso andavano immediatamente evacuati. Sulla storia della diga e del suo inabissamento esiste un bel documentario di Franco Taviani, “Adiosu diga addio”, da non confondersi con il nostro Adiosu.

Dove si trova: lago Omodeo, non lontano da lì c’è anche il villaggio di Santa Chiara, dove vivevano i dipendenti della Società Elettrica Sarda. Google Maps.

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Ex ENAP di Tempio Pausania

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L’istituto professionale abbandonato di Tempio

In una legislatura lontana lontana un gigante di Sanluri dichiarò guerra agli sprechi e scacciò i nullafacenti dalle loro scrivanie. Distratti dalle lotte che seguitarono in tutta l’isola, nessuno pensò a cosa fare di queste fabbriche di scartoffie, e così la Sardegna si confermò la terra dell’abbandono. E qui inizia la nostra storia.

Anche a Tempio Pausania, vera Capitale Europea dell’Abbandono 2019 grazie anche all’ex-base e all’ex-discoteca, l’ex Ente Addestramento Professionale (ENAP) troneggia all’ingresso della città fra via Italia Unita e via Palau. Qui ai piedi dell’ex-Kiss i due sfregiano il paesaggio con la grazia degli ecomostri. Lasciandosi ammirare dai turisti del Trenino Verde sulla linea a scartamento ridotto Sassari-Palau, vegliano sulle vittime dell’incendio di Curraggia e sul giovane olbiese Domenico Desini morto al suo primo giorno di lavoro durante la ristrutturazione.

Il nostro è un progetto autofinanziato. Sostieni Sardegna Abbandonata con una piccola donazione

Il centro scolastico, nato nel 1965 come ORAFOS fino al 2007 ha segnato la vita di tanti bimbi dando loro un futuro professionale nei campi più svarianti: i bambini potevano diventare meccanici, artigiani, tornitori, informatici, idraulici, elettricisti, antennisti e persino maestri cartapestai.

Percorrendo i grandi capannoni dei laboratori, visitando i tanti piani del convitto, ritroviamo la goliardia dei ragazzi, il lavoro interrotto dei muratori, il sudore dei maestri artigiani e l’ozio degli impiegati: tutte sensazioni congelate nel silenzio gallurese, fra le sporadiche visite di ladri, vandali, neonazisti, piromani e traceurs.

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Palazzina Castoldi

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Palazzina Castoldi, Marceddì

Ci troviamo in quella suggestiva zona dell’altura di Marceddì, sull’altura di fronte alle le peschiere di San Giovanni. Qui, in mezzo al verde, spunta lo scheletro di un grosso edificio, conosciuto come Palazzina Castoldi dal nome della vecchia famiglia proprietaria. L’edificio risale ai primi del ‘900 e si trova attualmente in una condizione di degrado, a quanto pare già segnalata in un documento dei primi anni ’50. Costruito con la pietra locale ha subito numerosi crolli che ne mettono in pericolo la stabilità. Non vi è più traccia delle scale e dei soffitti, dall’interno si può guardare in alto e vedere il cielo.

La proprietà della Palazzina era del concessionario delle peschiere Giovanni Antonio Castoldi che le gestiva con un sistema di organizzazione feudale infranto, dopo anni di lotte, nella seconda metà del novecento, dai pescatori locali. Il palazzo era occupato dal sub concessionario che aveva la gestione delle peschiere. La pesca nella laguna aveva subito i vincoli posti dal feudatario, il conte Castoldi e i suoi eredi, come detto possessori unici dei diritti di pesca, che continuarono ad esercitare tale diritto proprio fino al 1963, quando una sentenza del tribunale concesse l’autonomia, e il conseguente usufrutto, ai pescatori.

Gli stagni vennero così assegnati al Consorzio Nazionale Pesca che però non si preoccupò della loro tutela, favorendo al contrario un impoverimento della laguna. Dopo decise proteste da parte dei pescatori, una nuova sentenza del tribunale autorizzò i pescatori a gestire direttamente e liberamente il compendio.

L’area di san Giovanni, Marceddì e Corru S’Ittiri sono gestiste dal Consorzio pesca di Terralba. Per quanto può sembrare strano, la palazzina è attualmente in vendita.

Dove si trova: in zona Marceddì, nei pressi della SP69. Google Maps.

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Fortificazioni golfo di Oristano

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L’intera area costiera della Sardegna occidentale è disseminata di fortini della Seconda guerra mondiale

Fortini
Fortini abbandonati del golfo di Oristano VAI ALLE FOTO

Nel corso della seconda guerra mondiale la difesa delle coste divenne una delle priorità delle Forze Armate Italiane. La Sardegna e la Sicilia erano considerate obiettivi primari delle aviazioni alleate. Da qui la necessità di creare delle linee difensive costiere.

L’edificazione di capisaldi di fortificazione permanente fu concentrato in alcune zone della Sardegna, compreso il Golfo di Oristano. Lungo la costa occidentale infatti il tratto Oristano- Arborea risultava molto a rischio per la vicinanza della strada statale Carlo Felice e la ferrovia Cagliari-Macomer che passavano a pochi chilometri dal mare. Lungo le coste erano previste una serie di fortificazioni arretrate mentre alcuni fortini erano destinati al controllo delle strade.
Il sistema difensivo aveva il compito di rallentare un eventuale sbarco da parte degli Anglo-Americani attraverso una serie di postazioni armate completate da reticolati di recinzione.

Le postazioni visibili in Sardegna presentano due tipologie principali: la postazione pluriarma per mitragliatrici su treppiede, cannoni anticarro o fucili mitragliatori e la postazione circolare monoarma.

La postazione circolare monoarma, note anche come pillbox, appare come una cupola munita di un numero variabile di feritoie. A volte è presente un piccolo ricovero. E’ la tipologia più frequente con alcune varianti riscontrabili anche lungo la costa oristanese. Questa tipologia di bunker fu realizzata per resistere a piccoli e medi calibri.

cartina-provincia-oristanoVista la loro esigua resistenza alle offese avversarie, la possibilità di sfuggire all’osservazione era essenziale.
Per mascherare i fortini si impiegarono diversi sistemi di mimetizzazione. Alcuni manufatti vennero verniciati, altri costruiti a ridosso di siti nuragici come nel Cirras sul rilievo del nuraghe Nuragheddu a simulare un finto centro colonico con quattro fortini aventi le postazioni di tiro puntate su diverse direzioni. In alcuni casi le parti superiori di molti fortini mimetizzati da casa erano costruite con laterizi.

Molto frequente era la costruzione a forma di capanna o di casa colonica con finte finestre dipinte e con la copertura di tegole (Santa Giusta e Sassu). Talvolta si sfruttarono a scopi difensivi le torri costiere come accaduto a Torrevecchia di Marceddì. All’interno la torre venne rafforzata e accanto venne costruito un fortino mimetizzato con pietrame. Nel territorio di Arborea sono inoltre presenti almeno due rifugi antiaerei: uno in una casa della strada 18 ovest e l’altro nel centro abitato di Arborea all’interno di alcuni giardini.

La costruzione dei fortini lungo la costa oristanese risale agli anni 1942/43. La zona difensiva era estesa per circa 25 chilometri tra Cabras presso il rio Tanui e Marceddì di Terralba. I fortini vennero costruiti da due imprese locali che impegnarono 409 operai civili e circa 100 militari. Come si può osservare da una delle foto i fortini erano costruiti in calcestruzzo mentre le feritoie erano rafforzate con tondini di ferro con uno spessore minimo di circa sessanta centimetri. Le feritoie sono a svasare verso l’esterno per riparare i difensori dai rimbalzi delle schegge.

Non sono documentati attacchi specifici ma non sono da escludere né mitragliamenti aerei da parte degli anglo-americani né da parte dei tedeschi in ritirata verso nord. In una delle foto dei fortini del Cirras sono evidenti i segni di una mitragliata.

Nel corso degli anni molti fortini sono stati distrutti per costruire o allargare le strade. Oggi, soprattutto lungo le fasce frangivento del territorio di Arborea, sono stati avvolti dalla vegetazione sino a nasconderli alla vista.
Un immenso patrimonio che resiste al tempo e che resta immobile a ricordarci la tragedia della guerra. Ricordiamo che questi edifici sono tutelati dalle normative nazionali e regionali. Sull’argomento esiste la pubblicazione “Fortini di Sardegna” a cura dell’Associazione Studi Storici Fortificazioni Sardegna.

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Vecchio stabilimento Santa Lucia

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Vecchio stabilimento Santa Lucia: rovi, ruggine e un sacco di tappi di bottiglie.

Vecchio stabilimento Santa Lucia, Bonorva
Vecchio stabilimento Santa Lucia, Bonorva

Un frammento di storia industriale sarda sepolto nelle campagne di Bonorva, fra le rocce vulcaniche e i loro preziosi minerali. Il vecchio stabilimento delle acque minerali “Santa Lucia” è uno dei primi esempi di produzione industriale delle acque sorgive sarde. Anche qui, come per l’azienda Montes, si torna indietro di due secoli per seguire le orme di Giulio Negretti, imprenditore comasco che giunse chissà come fino a questo angolo del Meilogu, e proprio qui trovò fortuna.

Lo scenario è la pittoresca “valle dei nuraghi”, appunto in località Santa Lucia, dal nome di una chiesetta situata nelle vicinanze. Dopo aver individuato delle sorgenti di acqua minerale ai piedi del monte Oltovolo, Negretti fece effettuare delle analisi chimico-fisiche ufficiali alcuni anni più tardi, nel 1895. Successivamente, a cavallo tra i due secoli, venne costruito un primo stabilimento poco sotto il costone, in cui venivano effettuate le operazioni manuali di imbottigliamento. Le esportazioni di acqua varcarono presto anche il mare, fino a raggiungere Torino, Parigi e perfino Tripoli, dove Negretti venne premiato nel 1911. L’attività dello stabilimento proseguì e l’acqua di Bonorva venne ufficialmente riconosciuta dal Ministero nel 1927.

Se la storia imprenditoriale della “Santa Lucia” continua fino ai nostri giorni, così non è stato per il vecchio impianto: alcuni anni dopo la morte di Negretti la sempre crescente produzione portò i suoi figli ad abbandonare la struttura e costruirne una di maggiori dimensioni poco più a valle, dove è ancora oggi presente e attiva.

Non rimane molto del vecchio stabilimento, ora dimenticato e invaso dall’erba alta: un abbandono che stavolta è stato innescato non da un insuccesso commerciale ma dall’esatto contrario. I macchinari, le cisterne e le tubazioni sono state trasferite e ciò che resta è un anonimo edificio diroccato e vuoto, indistinguibile dai numerosi altri casolari abbandonati della zona, con stanzoni quasi inaccessibili in cui è ancora possibile scorgere tappi e casse di legno corrosi da ruggine e umidità: unici indizi del suo passato che sta lentamente scomparendo nel nulla, inghiottito dall’oblio, dal tempo e dall’onnipresente coltre di rovi. La naturale effervescenza è solo un lontano ricordo.

Dove si trova: vicino al nuovo stabilimento, sulla strada provinciale 43. Google Maps

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Forno di Cala Moresca

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Nella bella spiaggia di Cala Moresca c’è qualcosa che non c’entra niente: un grosso forno della calce, abbandonato e dimenticato, una vera anomalia

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Il forno abbandonato di Cala Moresca

Percorrere la strada che collega Golfo Aranci al promontorio di Capo Figari è un po’ come addentrarsi nel classico luogo alla fine del mondo. Lungo il tragitto compaiono a poco a poco gli elementi dimenticati di quello che un tempo era il cuore dell’economia portuale della Sardegna occidentale, abbracciando quasi un secolo di storia. Si incrociano la stazione ferroviaria ormai semideserta, l’inquietante colonia sordomuti, la villa Tamponi, i casermoni dell’ex colonia dei figli dei ferrovieri, il deposito Lacidonia, bunker e ruderi del secondo conflitto mondiale che anche qui lasciò il segno.

L’asfalto diventa terra battuta, le sirene del porto lasciano spazio al silenzio e si supera una sorta di confine rappresentato da due binari morti che chiudono definitivamente la ferrovia: pochi chilometri più avanti e la terra finisce, poi solo il mare, l’ignoto. In questo scenario irreale si incontra la bella spiaggia di Cala Moresca, dominata dalla possente mole di Capo Figari: una caletta sonnolenta e poco battuta, del tutto lontana dallo stereotipato turismo della costa subito più a nord. E anche qui è sufficiente volgere lo sguardo per individuare i segni del recente passato.

Appena alle spalle della spiaggia infatti, nascosto tra gli alberi, non troviamo il solito disco-bar o un grande albergo con vista sul mare: svetta piuttosto la bizzarra struttura di un grosso forno elettrico della calce, lentamente corroso dalla ruggine. La sua breve storia risale al 1967, e rappresenta l’apice ma allo stesso tempo la conclusione dell’intensa attività estrattiva che interessò Capo Figari fin dal Medioevo e soprattutto dalla seconda metà del XIX secolo.

Proprio per la sua natura calcarea così rara in Gallura, il promontorio era conosciuto come una gigantesca cava di calce che veniva attinta da piccole miniere circostanti quali Cala Greca, Monte Ruju, Figarolo, Cava Corallo e la stessa Cala Moresca. Erano stati costruiti diversi forni a fascine per la cottura direttamente sul posto, il maggiore dei quali è visibile ancora oggi all’ingresso della spiaggia. Il materiale risultante veniva quindi imbarcato o caricato su carri a buoi e autocarri.

Cala Moresca
Cala Moresca

Nel dopoguerra la calce di Capo Figari venne impiegata per sostenere l’espansione urbana della vicina Olbia e della Costa Smeralda. Per ottimizzare il processo produttivo e far fronte alle crescenti esigenze, nel 1967 venne costruito un grande forno elettrico tecnologicamente all’avanguardia. Un progetto ambizioso, molto, forse troppo avveniristico per l’epoca, il cui destino risultò segnato già dai primissimi mesi di attività. La sua elevata complessità funzionale procurò non poche difficoltà agli operai; inoltre gli elevati costi di gestione e l’introduzione di miscele per calci sintetiche diedero il colpo di grazia all’impianto, decretandone la fine e l’abbandono: un copione che si ripete, una storia di sogni delusi e fallimenti che anche stavolta raccontiamo.

L’aspetto di quest’angolo dimenticato non può che essere surreale: galline, ruggine e un autocarro fermo da chissà quanto ai piedi di un’improbabile incrocio tra una torre e un razzo spaziale con un curioso tetto spiovente alla sommità, che ricorda vagamente “Il castello errante di Howl” di Miyazaki (o almeno a noi lo ricorda).

Quello che rimane oggi, assieme agli edifici abbandonati della periferia di Golfo Aranci, è un’anomalia nascosta nel cuore di una Gallura sempre più proiettata verso il turismo di massa: un luogo fuori dal tempo, che guarda da lontano ciò che in parte è nato dalle sue ceneri.

Dove si trova: dietro la spiaggia di Cala Moresca. Google Maps.

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Postazione di difesa della diga di Santa Chiara del Tirso

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Un’altra perla abbandonata dell’Omodeo: una postazione di difesa della diga

DSCN9599Pensavamo di aver visto ormai tutto nei dintorni del lago Omodeo, e invece no. Troppa storia, e troppo lunga, per non aver lasciato decine di tracce abbandonate e spesso nascoste. 

La diga di Santa Chiara, inaugurata nel 1924, fu realizzata per regolamentare le piene del fiume Tirso, produrre energia elettrica e irrigare la pianura del campidano. Attualmente la diga di Santa Chiara è parzialmente sommersa a causa della costruzione di una nuovo invaso a valle che ha innalzato il livello del lago.

Durante il secondo conflitto mondiale le Autorità militari italiane predisposero la difesa della diga da possibili attacchi aerei alleati in quanto la sua distruzione avrebbe significato l’interruzione della energia elettrica e danni a tutto il Campidano di Oristano. In quest’ultimo centro venne installata sulla centrale torre di Mariano IV una sirena di allarme.

Nei dintorni furono predisposti dei punti di difesa e apparati nebbiogeni in grado di creare una cortina nebbiosa a difesa della diga. Il 2 febbraio 1941 la diga fu attaccata, senza ricevere danni significativi, da aerosiluranti inglesi. Alcuni siluri furono intercettati da una rete posta a difesa della sbarramento. Nel maggio del 1943 numerosi attacchi aerei interessarono la zona senza che la diga venisse colpita. Venne colpito solo il ponte stradale causando l’interruzione della circolazione che venne ripristinata il mese successivo.

Nel giugno del 1943 la difesa contraerea della diga fu affidata alla 17° Milizia Contraerea (DICAT). Il Comando DICAT fu situato nella zona di Santa Chiara del Tirso. Erano presenti otto edifici per casermaggi e servizi, idonei a ospitare ottanta uomini. Vi erano inoltre un serbatoio idrico e una torre di osservazione.

La torre era costruita in mattoni di laterizio e si accedeva alla sua sommità per mezzo di una scala elicoidale in legno. Questa torri erano dei punti di osservazione che consentivano una buona visione del territorio da controllare.

Gli edifici oggi sono semi diroccati mentre la torre è ancora in buono stato di conservazione.

Sulla parete laterale di uno degli edifici è visibile la scritta “Comando Dicat Tirso”. Ma a emozionarci è stata l’incisione sul muro della raffigurazione di una capra, animale simbolo di Sard. Abb. 

Intorno a questo nucleo di comando, sparse nel vicino territorio, vi erano delle batterie, anch’esse con casermaggi e servizi, e dotate di piazzole con mitragliatrici.

Dove si trova: sulla strada per andare a Santa Chiara del Tirso, sulla sinistra. Google Maps

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Green Park Hotel, Porto Rotondo

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L’Apocalisse, in forma di villaggio turistico abbandonato

Cos’è il lusso? Il lusso è potersi abbandonare, avere così tanto da disinteressarsi a qualcosa. Ma non roba da poco: che sia esclusiva, in bella vista e che tutti vorrebbero avere. Non c’è niente di più lussuoso che qualcosa di abbandonato in mezzo al lusso: dove tutti sgomitano per esserci c’è chi si può permettere il lusso dell’abbandono, di trascurare e sprecare.

Come è successo, dopo l’ex Fiat Playa di Punta Marana, al Green Park Hotel di Porto Rotondo. Un villaggio turistico con 50 appartamenti, 36 suite, due piscine, campi da tennis e vista mozzafiato sulla Costa Smeralda. Uno schiaffo ai tanti benestanti della zona che, dopo eleganti blitz e contro-blitz dei Carabinieri fra proprietari e gestori, si ritrovano questo imbarazzante maniero diroccato in cima alla collina.

Green Park Hotel 3D by Google

In mezzo al lusso, tutto sale di livello: anche il ladro non è quasi più tale, ma per la stampa diventa il novello Arsenio Lupin, l’elegante bandito che trova il tempo di distarsi in discoteca e autore di imprese da recordman.

Così in Gallura gli appassionati di guerra simulata non devono accontentarsi di pericolosi scenari post-industriali come Marghera, Bagnoli o Porto Torres, ma possono perdersi in questo labirinto, e poi godersi un cocktail in piazzetta.
All’interno regna il caos, e solo alcuni ambienti sembrano ancora occupati. Perché diciamocelo: occupare a Porto Rotondo è tutta un’altra cosa, mia cara Rastona.

Dove si trova: vicino a Porto Rotondo, anche se sembra di stare su un altro pianeta. Google Maps

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Hotel Caprile

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Hotel Caprile di Olbia, dove il sole sta letteralmente arrugginendo

Alcune informazioni dal depliant originale:

Hotel di nuovissima costruzione di II categoria □ aperto tutto l’anno □ 27 camere con e senza bagno – 51 posti letto □ telefono □ American Bar □ spiaggia privata alla quale si accede direttamente dall’albergo □ ideale soggiorno estivo per sub e per pescatori tradizionali □ nella stagione della caccia una riserva è a disposizione dei clienti □ parcheggio macchine □ l’Albergo è collegato con la stazione marittima dell’ISOLA BIANCA e con l’AEROPORTO di VENAFIORITA.

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■ Fà da cornice all’Hotel CAPRILE l’elegante complesso balneare del LIDO DEL SOLE che comprende un ampio e attrezzatissimo ristorante, cabine, piscina, dancing, bar, situato in un arco di mare incantevole in un superbo scenario naturale al quale fanno da sfondo l’Isola di TAVOLARA e GOLFO ARANCI.

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L’albergo è stato ampliato e migliorato nel 1970, dispone attualmente di 40 camere con 76 letti, piscina privata, telefono in tutte le camere, due pontili per imbarcazioni da diporto.

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Aperto tutto l’anno, è particolarmente indicato per sportivi praticanti e persone bisognose di tranquillità.

Dove si trova: a sud di Olbia nel Lido del Sole. Google Maps.

Foto

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