Quantcast
Channel: Edifici abbandonati – Sardegna Abbandonata
Viewing all 80 articles
Browse latest View live

Caseificio Caria, Cossoine

$
0
0

Da Cossoine a Brooklyn: la storia di un caseificio d’oltreoceano

Meilogu: terra di mezzo, luogo antico, vulcanico, geologicamente primordiale. Una regione poco popolata, un piccolo buco nero nelle immagini satellitari notturne e uno spazio bianco sulla mappa di Sardegna Abbandonata.

In questo deserto di campagne e coni vulcanici si sviluppa una secolare tradizione agropastorale riflessa nella tipologia dei suoi pochi abbandoni: principalmente caseifici, capannoni agricoli o casupole rurali, spesso ridotti a ruderi devastati e irriconoscibili, ma talora meritevoli di interesse storico.

È il caso di Cossoine, dove si trova il vecchio caseificio dei fratelli Caria, che accoglie abitanti e forestieri all’ingresso del paese. Costruito nei primissimi decenni del XX secolo da una nota famiglia di facoltosi industriali caseari locali, proseguì l’attività fino agli anni ’70.

Adiacente all’omonima casa padronale, il suo interno conserva ancora casse, botti, attrezzi da lavoro e tracce di attività ora sommerse da polvere e rovi. L’edificio posteriore, sul cortile interno, ospita gli scaffali per la stagionatura dei formaggi.

Osservando le sue rovine, si stenta a credere che il caseificio fu il centro di un minuscolo impero economico da cui, in scala ancora minore rispetto ai più potenti colleghi di Macomer, si coordinavano esportazioni di pecorino fino agli Stati Uniti.

Da Cossoine a Brooklyn non è dunque la parodia provinciale di un bel poliziottesco anni ’70, ma la fotografia di una piccola e inaspettata realtà industriale oggi dimenticata.

Dove si trova: provenendo dalla Strada Statale 131 Carlo Felice all’ingresso di Cossoine (SS). Google Maps

 

        

                  


 

Sardegna Abbandonata è un progetto indipendente.

Se vuoi puoi sostenerci con una donazione.

Grazie!


Villaggio Portu Maga, Arbus

$
0
0

Villaggio Portu Maga. Tramonto sull’abbandono.

Strane persone, gli urbex: si vantano di aver “scoperto” per primi luoghi già frequentati in passato da migliaia di persone. Come qui, nella Costa Verde, tra la spiaggia di Piscinas e Gutturu’e Flumini, dove sorge il villaggio turistico Portu Maga.

È un complesso residenziale costruito verso la fine degli anni ’80, con gli ultimi sprazzi di intrattenimento e animazione della Valtur dal 2000 al 2007. Da quest’ultimo anno, il villaggio Portu Maga sembrerebbe essere stato completamente abbandonato.

villaggio portu maga (29)

Costituito da appartamenti indipendenti, un tempo completamente arredati, una sala ristorazione, lavanderia, ascensore, campi da tennis, piscina e altri sfiziosi comfort, oggi è ormai spogliato di tutti i suoi arredi. Negli anni è stato divelto, staccato, strappato, smembrato e smontato quasi tutto, infissi compresi.

Nell’ingresso principale, laterale rispetto alla strada, è affisso il cartello Proprietà Privata, con tanto di avviso “Sottoposto a videosorveglianza”. E chissà se qualcuno davvero videosorveglia questo triste cimitero del turismo che lentamente scompare.

Là dove la Sardegna purtroppo finisce, iniquamente bloccata dal mar di Sardegna, anche questa vecchia gloria condivide la sorte di Funtanazza: tramonti sui tramonti, tra i monti.

Dove si trova: Costa Verde, lungo la Strada Provinciale 4 ad Arbus (SU). Google Maps.

(grazie a Silvia D.)

 

   

 

Colonia Montana S’Ampulla, Oschiri

$
0
0

Una Colonia abbandonata ma sempre prossima al recupero, dove “non c’è più nulla da prendere, è stato portato via tutto”.

Non molto tempo fa abbiamo parlato dell’ultimo lembo di Gallura che si incuneava nell’Anglona: adesso è il momento di una vendetta trasversale, e tocca a questo verde angolo di Monte Acuto mimetizzarsi tra le foreste galluresi.

Qui a 855 metri, dove sgorga una delle sacre fonti che alimentano il Coghinas, sorge la benemerita Colonia Montana S’Ampulla. Nata negli anni settanta per dare frescura e conforto alla gioventù oschirese, ha vissuto alterne fasi di successo e abbandono, che sono ben concretizzante nell’attuale status di eterno cantiere intrappolato in un ciclo temporale di abbandono-recupero-abbandono. Se esternamente la struttura appare praticamente nuova, all’interno è stata depredata di tutto il depredabile.

Un cartello disperato avverte ladri e altri eventuali ospiti: “È inutile entrare distruggendo gli infissi e vetrate, non c’è più nulla da prendere, è stato portato via tutto. E abbiate rispetto per le proprietà del comune che sono anche vostre, in quanto ogni qualvolta che vengono distrutte vetrate, infissi di porte e di finestre ed ogni quant’ altro, il tutto viene riparato dal comune con i soldi vostri e dei vostri genitori“.

La Colonia superò anche alcuni drammi, come il 28 luglio 1983, quando durante l’incendio di Curraggja, la colonia ai piedi del Limbara e a pochi chilometri da Balascia fu interamente evacuata dai 56 bambini e 13 sorveglianti. Dagli anni Novanta divenne oggetto di eterno rilancio, con proposte di rifugio montano, adescamenti come centro di educazione ambientale, lusinghe da laboratorio territoriale della montagna e, perché no, habitat per il “recupero dei giovani disagiati”.

Dove si trova: raggiungibile dalla Strada Statale 392 del Lago del Coghinas, svoltando -secondo i vostri gusti e sensibilità- al bivio per San Leonardo o per la Colonia Montana S’Ampulla, nel territorio di Oschiri (SS). Google Maps.

        

 

Ex albergo-mensa, Ingurtosu

$
0
0

Costruito negli anni ’30, e presumibilmente abbandonato nei primi anni ’60, questo albergo-mensa per un glorioso trentennio ospitò gli operai fuori sede delle miniere di GennamariIngurtosu.

Si trova su una collina poco sopra l’ex ospedale di Ingurtosu, esattamente di fronte alla Chiesa di Santa Barbara. Ci troviamo a pochi minuti da Villa Idina o Villa Ginestra, la magnifica villa dove risiedevano i coniugi Brassey quando si trovavano in zona.

Sulla strada, proprio davanti all’edificio abbandonato si nota la stele commemorativa dedicata a Lord Thomas Allnutt Brassey, padrone della miniera, a quanto pare realizzata dagli stessi lavoratori che si autofinanziarono per costruirla. Lord Brassey morì il 12 novembre 1919 investito da una vettura a Londra, e la sua scomparsa cambiò i destini di Ingurtosu.

L’albergo è costruito su due piani: al primo si nota la grande sala mensa con la cucina, mentre al secondo stanzoni probabilmente utilizzati come dormitori. In passato, ci dicono i veterani di Ingurtosu, la mensa era utilizzata anche dai bambini dell’asilo.

All’esterno si notano subito i fantasmi del passato emergere dal muro. Sono le tracce dei tentativi, a quanto pare non del tutto riusciti, di cancellare il motto “CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE” che svettava enorme sulla parete esterna dell’edificio.

All’entrata troviamo ancora messaggi politici sui muri lungo il corridoio, sebbene di molto successivi. Tra le tante notiamo alcune scritte contro il povero Occhetto, ultimo segretario del Partito Comunista Italiano, e sotto il messaggio “Nuovo PCI al servizio degli americani”, che potremmo datare come dei primissimi anni ’90, dato che è legato alle polemiche con gli USA che non consideravano sufficienti i cambiamenti del partito nei confronti dell’ex URSS e chiedevano che venisse cambiato il nome. Cosa che poi accadrà nel 1991 con lo scioglimento del PCI e la formazione del PDS.

Ma è al piano superiore che le scritte sui muri virano decisamente sull’imprevedibile e il bizzarro, trasformando l’ex albergo mensa in una specie di grande gioco o installazione artistica. Già sulle scale veniamo invitati a seguire un percorso segnalato da un freccia: “Entrata alle TV”.

Una volta di sopra scopriamo che ogni stanza del primo piano corrisponde a un canale televisivo italiano. Si inizia con la prima, corrispondente ovviamente a RAI 1. Seguono tutte le altre emittenti più note, comprese le reti Mediaset alle quali è stato aggiunto “Berlusconi”, e non manca anche Videolina, la più famosa TV sarda. Ignorando le reali intenzioni degli anonimi creatori di questo strano e provocatorio percorso ludico-artistico, non resta che seguirlo e interpretarlo a modo nostro.

Entrando nella stanza corrispondente a Canale 5, ci si trova di fronte a una finestra che incornicia perfettamente il meraviglioso paesaggio boschivo di Ingurtosu. Monti verdissimi, pace e tranquillità, il canto degli uccelli e, chissà, forse qualche cervo nascosto tra gli alberi. Praticamente il contrario di ciò che associamo naturalmente all’immaginario di Canale 5. Che questo contrasto fosse proprio nelle intenzioni degli anonimi autori? Dovremmo sederci e guardare il paesaggio? A un certo punto appariranno starlette e mezzibusti?

Sotto la finestra, cresce un alberello, come una pianta d’appartamento sul pavimento del salotto. In fondo al corridoio c’è invece una porta che dà sul vuoto e anche questa incornicia alla perfezione l’ambiente circostante. Insomma: l’albergo è trasformato in un grande televisore sintonizzato sul paesaggio di Ingurtosu.

Dove si trova: appena fuori Ingurtosu, sulla strada che porta a Pitzinurri, di fronte alla Chiesa di Santa Barbara. Edificio pericolante, eccetera eccetera. Google Maps.

 

               

 


 

Sardegna Abbandonata è un progetto indipendente.

Se vuoi puoi sostenerci con una donazione.

Grazie!

Case Oredda, Sassari

$
0
0

In mezzo al nulla c’è un nome. O più di uno.

Le Case Oredda, attestate anche come C. Raimondi, sono oggi solo un toponimo dello sterminato agro di Sassari, nei pressi della mal nata zona industriale di Truncu Reale e della regione Saltareddu. Eppure ancora oggi i suoi resti bastano a raccontare quella che fu una fiorente azienda agricola con decine di lavoratori, tanto da regalare la suggestione di un piccolo villaggio.

Non sappiamo se qualcuno degli abitanti sia sopravvissuto, ma di certo troverebbe irriconoscibili le sue campagne: attraversate da tralicci dell’alta tensione e superstrade a quattro corsie, dominate da industrie del riciclo e da un carcere fortezza. Dei tanti animali che avranno popolato la tenuta neanche l’ombra, sostituiti dalla forza della macchine o chiusi nei capannoni. Ma del resto se tornassero tra qualche anno ancora, andrebbe ancora peggio: potrebbero non trovare nemmeno più umani, sostituiti dai robot e dalla piena automazione anche qui, nella periferia dell’impero.

Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 132, in un tratto parallelo alla Strada Statale 131 Carlo Felice, in località Truncu Reale a Sassari. Google Maps.

Semaforo di Punta Falcone, Santa Teresa Gallura

$
0
0

Un panoramico abbandono con terrazza vista Corsica

“Tutti uguali, questi semafori”, diranno subito i nostri piccoli lettori. Capo Figari, Capo Ferro, Capo Sperone, e adesso anche questo, un’altra specie di ferro da stiro bucherellato ed eroso da vento e salsedine. E invece no, ognuno dei nostri semafori ha una diversa storia alle spalle, una funzione, una peculiarità, e forse chissà, anche un proprio carattere.

Sicuramente ha avuto il suo bel da fare, il semaforo di Punta Falcone: dirigere e regolare il traffico navale sulle Bocche di Bonifacio, braccio di mare da sempre affollato e turbolento, non dev’essere stato un compito facile. Per noi umani del futuro, comodamente seduti su veloci motonavi o aerei, undici chilometri di larghezza sembrano un’inezia, un canale come tanti che ci lasciamo alle spalle nel giro di pochi minuti. Ma nell’epoca dei remi e delle vele fino a quella dei primi motori, le Bocche, battute da maestrale e forti correnti, hanno sempre terrorizzato i marinai.

L’ultima grande tragedia che ebbe luogo in queste acque risale al 15 febbraio del 1855: nel naufragio della fregata francese Sémillante, sorpresa da una tempesta, morirono tutti i 695 uomini a bordo, tra membri dell’equipaggio e soldati diretti in Crimea. L’eco di questo drammatico episodio colpì i Governi e l’opinione pubblica mediterranea, dando la spinta alla creazione di un servizio di soccorso navale costiero ben coordinato e, parallelamente, di una rete di segnalazione da terra.

Nacque così, pochi anni più tardi, il semaforo di Punta Falcone. Dalla sua collina in località La ficaccia, a 112 metri slm e sul punto più a nord dell’isola, la visuale spazia sullo stretto e sulle inconfondibili scogliere bianche dell’antistante Corsica.

La sua attività, coordinata dalla Regia Marina, continuò incessante fino all’introduzione delle nuove tecnologie di comunicazione radionavale. Durante la Seconda Guerra Mondiale le colline di Punta Falcone si affollarono pericolosamente, con l’installazione di due batterie antiaeree e antinave. Dopo la fine delle ostilità e quasi un secolo di lavoro sulle spalle, il semaforo beneficiò anch’esso del meritato pensionamento raggiunto con la dismissione della rete costiera nazionale.

Spogliata da mobilio e tracce umane, la struttura ormai fatiscente è ridotta a uno scheletro. Sono ancora visibili le casupole di servizio e gli alloggi del personale, la più grande delle quali comunica col semaforo vero e proprio tramite una ripida scala coperta.

La sala centrale, dalla tipica forma a semiluna, è murata e resa cieca dagli immancabili blocchetti di calcestruzzo già visti altrove. La sorte della vecchia asta semaforica è ignota, ma dubitiamo che sia esposta nella villa di qualche eccentrico miliardario collezionista.

Dalla terrazza sovrastante, sogno di qualunque agente immobiliare, Bonifacio appare più vicina che mai, sensazione rafforzata dal cellulare che continua a ricevere messaggi di benvenuto dalla rete telefonica francese.

In mezzo, il mare custode dei morti perennemente increspato da onde e vento, su cui echeggiano sinistre grida di gabbiani che alcune leggende popolari locali considerano foriere di sventura e naufragi.

Dove si trova: sulle colline di Punta Falcone, in località La Ficaccia, Santa Teresa Gallura (SS). È raggiungibile solo a piedi, su un sentiero che percorre il promontorio. Google Maps.

Arredamenti FCM, San Gavino Monreale

$
0
0

Dallo sconto alla liquidazione, dalla liquidazione all’abbandono.

Appena usciti dalla ridente cittadina di San Gavino Monreale e dirigendosi verso il grande sud, i viaggiatori più attenti potranno notare emergere tra la vegetazione incolta un ex mobilificio dall’acronimo misterioso: Arredamenti F C M.

Aperto dagli anni ‘70, è sopravvissuto fino alla grande recessione globale che ne avrà sicuramente determinato la chiusura. Dotato oggi di una naturale tendenza alla mimesi, diventa quasi invisibile alle veloci auto in transito.

Dove un tempo famiglie felici rinnovavano il loro focolare, ora si vedono solo espositori vuoti e cataloghi impolverati di beni fuori produzione. Dove si parlava con i clienti e i dipendenti si concedevano qualche confidenza, restano vecchi giochi e carri allegorici di remote sfilate.

All’interno un animale in decomposizione: le mosche arredano questo strano soprammobile, in questi spazi espositivi dove tutto ormai è davvero liquidato definitivamente e da esporre c’è solo una mostra sull’abbandono.

In un frigorifero del vino e dei surgelati scaduti da più di un decennio; per terra radiografie, cambiali, cataloghi di tessuti. Nel piazzale la natura si riprende i suoi spazi cementificati, mentre nel cortile ferrose sculture aggiungono mistero all’abbandono.

Ci dicono i saggi post-moderni che non aver tentato è il peggior fallimento. Ebbene, possiamo testimoniare che qua a San Gavino Monreale qualcuno ha tentato, per un po’ è riuscito, ma tutte le cose hanno una fine. Le mosche lo sanno.

Dove si trova: al chilometro 0,2 della Strada Provinciale 61 a San Gavino Monreale (SU). Google Maps.

Villa Pusino, Sassari

$
0
0

Alle porte di Sassari, nella valle dell’abbandono

“Ga è drentu è drentu, ga è fora è fora!” (“Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori!”): così, ogni sera alle ore 20, gridava il guardiano delle vecchie mura che cingevano la città di Sassari, prima di chiudere le sue cinque porte isolandola per la notte dal resto del mondo, fino al mattino successivo.

È facile quindi immaginare che, dal Medioevo fino alla seconda metà del XIX secolo, epoca dell’abbattimento della cinta muraria, lo stato delle strade e dei trasporti non sempre permetteva a viandanti, commercianti e sassaresi residenti di giungere in città in tempo per questo annuncio. Col progressivo fiorire dei traffici e dell’importanza del capoluogo turritano, restare chiusi fuori da Sassari iniziò a diventare un bel problema.

E qui inizia la nostra storia: nella Valle del Rosello, a poca distanza dall’omonima fontana e dalla Porta Mercato, uno degli accessi alla città più frequentati, delle locande poste fra le attuali via Sorso e viale San Francesco sembravano venire incontro alle esigenze di faccendieri e ritardatari. Ospitando così dietro pagamento chi non intendeva passare la notte all’addiaccio nell’umidità che da sempre caratterizza l’Eba Giara, e potendo nel frattempo ammirare i bei frutteti vallivi del barone Domenico Giordano.

Coincidenza volle che fu proprio un altro locandiere, Tommaso Boarelli, tenutario dell’albergo Italia in piazza Azuni, a concepire e realizzare questa villa lungo la vecchia strada per Sorso. Costruita a fine Ottocento con grande arguzia, in una complessa tenuta che includeva frutteti e anche un terreno allora immondezzaio cittadino, portò grande sollievo alla municipalità, nonché decoro all’intera valle. Era dotata di tutte le comodità: tre piani, 340 metri quadri suddivisi tra zona padronale e servitù, affreschi, pavimenti robusti, grandi caminetti, soffitti a volta, fontana interna, cantine, stalle per i cavalli e ampio podere adiacente.

Nel 1932 venne realizzato il possente Ponte Rosello che slanciò sì la città nella sua espansione verso il mare, ma offuscò anche la villa che ormai si trovava sotto lo sguardo dei passanti. Nel dopoguerra fu quindi acquistata e abitata per alcuni decenni dalla famiglia Pusino, i cui discendenti sono tuttora proprietari in attesa di una riqualificazione che sembra non arrivare mai.

Per lungo tempo ostaggio di ladri (12 furti in altrettanti anni) e in posizione tragicamente privilegiata per i frequenti suicidi che si susseguono ancora oggi dal sovrastante ponte Rosello, la villa è stata abbandonata, murata con i suoi ricordi ed esclusa forse per sempre dal mondo esterno. Tutto intorno, un tappeto di siringhe insidia i rarissimi passanti che si avventurano per le vecchie scale di via Palmaera, anch’esse faticosamente costruite a suo tempo col contributo dei proprietari.

Ormai dimenticata e decadente nonostante la solidità della costruzione, villa Pusino resta invisibile mentre in alto il traffico del ponte Rosello scorre da e verso Sassari città aperta. Proprio il ponte, deviando e sopraelevando il transito, ha contribuito a far precipitare la villa nell’oblio e nell’oscurità, mantenendola all’ombra dei suoi piloni anche alla luce del giorno, come nell’inquietante L’empire des lumières di René Magritte.

(si ringrazia A. Ponzeletti per la consulenza)

Dove si trova: in via Palmaera, sotto il ponte Rosello, a Sassari (SS). Google Maps


Baita Puntas Biancas, Padria

$
0
0

Indovinate? In mezzo al nulla c’è qualcosa.
Ad esempio una nobile e bizzarra baita.

In quel di Padria (SS) lungo la Strada Provinciale 11, immersa nel verde e nelle rocce scavate dalla Storia di Puntas Biancas, appare ai viaggiatori una misteriosa baita futurista con le finestre decorate da pucciosi cuoricini, ma dalle forme metalliche che accelerano nel futuro.

Un avamposto pensato per durare e fungere da base sicura per le esplorazioni umane, proprio come i pannelli di eternit. Davanti, una fontana che affastella membra spezzate e scomposte di quella che fu una statua da giardino.

Intorno un delicato filo spinato, misteriosi menhir dal volto umano e una recinzione integralmente arrugginita più che ricordarci qualcosa, ci confondono sull’attuale status dalla pregevole costruzione.

Le fonti digitali l’attribuiscono a Don Vittorio Boyl, Marchese di Putifigari, scomparso nel 2011. Venne edificata negli anni ’70 per valorizzare la raccolta di piante e minerali, insieme all’omonima riserva e al delizioso laghetto antistante, scolpito a mano.

Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 11 a Padria (SS). Google Maps.

 

      

 

Casa Collins, La Maddalena

$
0
0

Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di Caprera

Spesso girano tante leggende intorno ai posti abbandonati, ancora di più quando si tratta di ville. Fantasmi, morti, misteriose presenze o semplici dicerie gettano un’aura di inquietudine che aleggia su questi luoghi, sia per la suggestione dovuta a fantasie popolari, sia per una sottile ma non trascurabile sensazione di paura ancestrale che trasmettono.

Lo staff di Sardegna Abbandonata, noto simpatizzante del CICAP, ha comunque un cuore e, pur rifuggendo da ectoplasmi o leggende metropolitane, non resta insensibile al cosiddetto fascino dell’ignoto, più che altro per il gusto dell’assurdo.

Stavolta, tuttavia, non si parla di fantasmi ma di storie d’amore tra illustri personaggi storici. Ci è comunque impossibile rimanere con i piedi per terra, se non altro perché per raggiungere la nostra destinazione dobbiamo necessariamente prendere il battello e attraversare il braccio di mare che ci separa dall’isola di La Maddalena.

Stretta in un improbabile contrasto fra un mare da sogno e un depuratore, nel Passo della Moneta, punto di transito per la vicina Caprera, si trova una villetta ottocentesca che per anni ha alimentato leggende, dicerie e ammiccanti pettegolezzi vintage.

Torniamo un po’ indietro: prima di essere invaso dai turisti, l’Arcipelago di La Maddalena, una manciata di isole a poche bracciate dalla Costa Smeralda, è stato un piccolo crocevia della Storia. Per la sua posizione strategica ha richiamato Eserciti e Marine Militari di mezzo mondo: Savoia, inglesi, francesi, tedeschi e infine statunitensi, oltre a una folta schiera di personalità tra cui Horatio Nelson e Giuseppe Garibaldi, quest’ultimo notoriamente ritiratosi nell’isola di Caprera.

In questo convulso vortice di eventi, i volti noti dell’epoca si intrecciano con quelli meno noti. Oltre a uomini d’arme, nell’Ottocento l’Arcipelago ha attratto a sé parecchi esponenti della classe agiata britannica, tra cui James Phillips Webber, Daniel Roberts e Maria Esperance von Schwartz, per periodi più o meno lunghi.

Nella discrezione di questa piccola ma influente comunità di immigrati, ricca di personalità originali ma spesso tendenti all’eremitaggio, hanno lasciato il segno anche i coniugi Collins: sbarcati intorno al 1832, Richard ed Emma Claire Collins si stabilirono inizialmente in una cadente casupola del centro di La Maddalena, quindi, pochi anni più tardi, comprarono un terreno a Punta Moneta, di fronte all’isola di Caprera, costruendo uno spartano villino in stile moresco. Dieci anni dopo il loro arrivo, acquisirono inoltre numerosi terreni demaniali proprio a Caprera.

Furono una coppia anomala per le rigide convenzioni dell’epoca, con tutti i connotati della classica fuga d’amore: lei giovane rampolla di una casa nobiliare, dai modi gentili e dedita alla floricoltura, lui rozzo scudiero, alcolizzato, silenzioso e patito di caccia, pesca e agricoltura. Caratterizzati da una forte riservatezza, non ebbero mai figli e, nonostante le differenze caratteriali, vivevano in silenziosa simbiosi e rifiutarono garbatamente di assumere domestici, giardinieri o contadini. Addirittura “pare che per vent’anni nessuno abbia visto la signora Collins per le strade di La Maddalena”. Appartata di fronte al mare e lontana dal centro abitato, casa Collins con suoi due proprietari venne inizialmente risparmiata dai pettegolezzi popolari.

Nel 1855 Giuseppe Garibaldi, già vedovo, si stabilì a Caprera, prendendo possesso di terreni confinanti con quelli dei Collins, e non mancarono i diverbi con Richard per questioni legate al bestiame. Mentre i rapporti tra lui e l’Eroe dei Due Mondi si incrinarono rapidamente, Emma mantenne sempre buone relazioni con quest’ultimo. Nove anni più tardi, nel 1864, Emma rimase anche lei vedova, mantenendosi devota al marito al punto di murare la sua bara all’interno della villa. Passò gli ultimi anni della sua vita in assoluta ma dignitosa solitudine, rotta solo da frequenti lettere d’amicizia con Garibaldi e dall’aiuto a lui stesso prestato nel 1867, quando lo supportò nella rocambolesca e temporanea fuga da Caprera aiutandolo nella breve traversata del braccio di mare e ospitandolo proprio a casa Collins per una notte. Morì nel 1868 e venne sepolta nel piccolo cimitero del paese. Le spoglie del marito la raggiungeranno dopo diversi anni, quando lo Stato si riappropriò di terreni e villa, traslandole nella tomba della moglie.

Da allora la casa è stata abbandonata a sé stessa, circondata da ben poco gloriosi mezzi pesanti, rifiuti urbani e un’isola ecologica. L’interno è chiuso e inaccessibile, verosimilmente svuotato dalla “biblioteca molto ben fornita e un caminetto per l’inverno” che a quanto pare custodiva. Gli unici ambienti esplorabili, piccoli ma sufficienti a farci respirare un’atmosfera di profonda decadenza, sono la cantina e un magazzino esterno. Probabilmente villa Collins è stata riutilizzata negli anni successivi, data la presenza di alcuni elementi più moderni e tracce di alimentazione elettrica.

Gli ultimi anni di Emma Collins hanno alimentato fantasie e dicerie mai realmente accertate, comunque “ufficializzate” da un articolo pubblicato sul New York Times nel 1908 da un amico intimo di Garibaldi, Achile Fazzari, che parlava della vedova come di una vera e propria “amante”, una relazione inizialmente platonica poi palesatasi dopo la scomparsa del marito, senza tuttavia fornire troppi dettagli. “Io ho visto le numerose lettere che ella scrisse all’eroe. Datano dal 1860 e continuano per alcuni anni […] Lasciamo questa storia nel suo mistero. Io non so perché ho sollevato un angolo del velo”.

Non esattamente giornalismo d’assalto, dunque, un dire e non dire che lascia la questione aperta più a ulteriori interrogativi che risposte, fili sparsi su cui la stampa dell’epoca ha ampiamente ricamato. Le investigazioni giallorosa proseguono con l’analisi di biglietti e lettere sia ereditate da Fanny, nipote della Collins, sia custodite negli archivi del Vittoriano, a Roma, a cui non abbiamo accesso. Missive riferite come “affettuose” e “confidenziali”, come però era di norma nei dialoghi tra gentiluomini e gentildonne dell’epoca.

Come gran parte delle vicende umane, anche questa storia viene inghiottita dagli abissi del Tempo. Non sapremo mai se e cosa ci sia davvero stato tra i due, personalità vicine ma allo stesso tempo estremamente distanti. Preferiamo rimanere nel dubbio e non cadere nel facile sensazionalismo, anche se è inevitabile ammettere una certa suggestione, sostenuta dal fatto che casa Collins e casa Garibaldi, separate da un mare più o meno metaforico, siano visibili dalle rispettive finestre e continuano ancora oggi a guardarsi tra loro.

Dove si trova: sulla collina sovrastante il Passo della Moneta, all’estremità sud-est dell’isola di La Maddalena (SS). Google Maps.TRIPinVIEW.

The post Casa Collins, La Maddalena first appeared on Sardegna Abbandonata.

Casa al centro della rotonda, Cabras

$
0
0

Una casa abbandonata al centro di una rotonda, un punto fermo nell’Universo della burocrazia.

Tra le tante bellezze che può vantare la zona di Cabras una delle nostre preferite è senza dubbio questa: una casa abbandonata al centro di una rotonda. Si tratta di una vecchia casa del Consorzio di bonifica, chiaramente preesistente alla rotatoria. Ma la presenza della casa non ha fermato i progettisti: circa 12-13 anni fa si è creata questa opera d’arte involontaria, una rotonda costruita intorno alla casa.

Foto realizzata utilizzando dei trampoli molto alti

Nemmeno il dettaglio che nella casa abitasse una famiglia ha fermato il Progetto: la famiglia è stata trasferita altrove e la rotatoria è apparsa, spezzando a metà il lungo rettilineo Oristano-Torregrande. Oggi, per motivi burocratici-kafkiani di livello sublime, di quelli che piacciono a noi, la casa non si può demolire – o meglio, nessuno capisce chi deve farlo, come, quando, perché. Dunque la casa è rimasta lì.

Qua possiamo vedere la mappa prima della costruzione della rotonda (foto del 2006):

Foto da Sardegna Geoportale

Qua invece possiamo ammirare il momento della Creazione, in questa immagine del 2010:

Foto da Sardegna Geoportale

Infine, ecco l’Opera compiuta, foto del 2022:

Foto da Google Maps

Insomma, il mondo è cambiato intorno alla vecchia casa del Consorzio di bonifica, la zona artigianale di Cabras si è allargata, è stata fatta una pista ciclabile, il mondo ha conosciuto guerre, epidemie, festival di Sanremo: ma la casa è ancora là.

Nel 2014 purtroppo questa strana presenza è “stata il teatro” – come scrivono a volte i giornalisti – di un incidente mortale. Due persone a bordo di un’automobile percorrevano di notte il rettilineo e non hanno visto – si ipotizza – né la rotonda né la casa. Si sono così schiantati ad alta velocità contro il muro, andando a finire addirittura a quasi 10 metri d’altezza.

All’interno della casa oggi non c’è quasi più nulla: uccelli, una valigia vuota (con una pagina di giornale che dice “Senza più amore, meglio morire”), qualche piccolo segno della vita che un tempo c’è stata. Ma per gli appassionati del genere resta un ottimo posto dove affacciarsi e guardare le macchine che girano intorno. Una specie di punto fermo dell’Universo che la burocrazia vuole che resti così. Eterno.

Curiosità: nella zona coinvolta nei lavori di realizzazione della rotonda c’era il sito archeologico di Sa Osa. Anche quello ha dovuto lasciare il posto alla rotonda.

Dove si trova: nel territorio di Cabras, nella strada che da Oristano porta a Torregrande, svincolo fra Ponte di Brabau e zona artigianale di Cabras. Google Maps. Ovviamente è vietatissimo e pericolosissimo avvicinarsi ed entrare, per carità non fatelo!

(Tra l’altro ricordiamo che anche il ponte di Brabau è stato per ben 30 anni un capolavoro di surrealismo: avevano costruito solo il ponte, ma non c’era nessuna strada, né da una parte, né dall’altra: solo il ponte al centro.  Nel 2011, dopo aver costruito la strada, è stato inaugurato e oggi collega la zona di Sa Rodia a Oristano. Ma questa è un’altra storia.)

Qua invece abbiamo applicato una macchina fotografica a un nostro amico gabbiano, che ringraziamo.

Seguici su Facebook, Instagram, Twitter, Tumblr e Youtube; se vuoi. 

E iscriviti alla nostra newsletter; sempre se vuoi!

Concessionaria Locci, Macomer

$
0
0

Una famosa impresa sarda legata a un rapimento. Nata nel 1927, fallisce nel 2012 alla veneranda età di 85 anni. Oggi è completamente abbandonata.

Macomer, cittadina d’oro negli anni ’80. Si racconta che dai tanti paesi del circondario si preferiva venire qui per la spesa di ogni genere, piuttosto che andare a Sassari: dall’alimentare al corredo scolastico, dal vestito di festa a quello di tutti i giorni, il principale centro del Marghine offriva tutto il necessario, compreso l’acquisto di mezzi privati e aziendali. E dove si andava se non da Franco Locci per comprare un veicolo?

Oggi Macomer è un luogo carico di decadente fascino industriale, ricco di particolari, dettagli e oggetti incredibili. Nella sua storia anche una bruttissima vicenda privata, che è uno dei tanti capitoli scritti dall’Anonima sarda negli anni che vanno dal 1960 al 1990.

Andiamo con ordine: la società Locci nasce nel 1927, e saltiamo a piè pari direttamente negli anni ’70: c’è tanto da raccontare.

Nella memoria collettiva sarda l’impresa Locci è legata sicuramente anche alla fama di pilota di Franco Locci, e purtroppo anche a un triste fatto di cronaca. La concessionaria a marchio Fiat negli anni si è fatta un nome, dovuto anche al fatto che il signor Franco è un pilota vincente, così accade che uno dei tanti gruppi criminali dedito ai sequestri sta monitorando la sua situazione.

1978, 24 giugno. Tutta la nazione, isole comprese, è immobile per la partita Italia-Brasile dei Campionati del mondo. È la finale per il 3º – 4º posto, ma si sa, quando giocava la Nazionale, tutto il resto diventava relativo. Ma non per tutti: qualcuno usa il pretesto del vuoto creatosi in strada per mettersi in moto e rapire il piccolo Luca, figlio di Franco, con un’azione fulminea.

Il padre è fuori per una gara automobilistica, rientra di fretta e si mette subito alla ricerca di contatti per le trattative. Si susseguono gli appelli, compreso quello del Papa, all’epoca Giovanni Paolo I, dei vari vescovi sardi e di tutti i politici. Dopo 93 giorni di prigionia, fatta di paura, angoscia e buio Luca Locci viene rilasciato nella campagne di Lula in cambio di 300 milioni di lire.

Sette anni più tardi – e qui ritorniamo alle vicende della società – l’azienda ha 55 persone alle sue dipendenze, sempre più in espansione. Nel 1989 l’attività è al primo posto nelle graduatorie provinciali con fatturato annuo di 43 miliardi di lire e apre una filiale nella città di Sassari.

Negli anni 2000 i primi scricchiolii: nel 2002, 7 dipendenti vengono licenziati, ma secondo il titolare è un gesto per preservare i restanti 27 e le sorti dell’azienda, che come tutte le altre del settore, sta passando un brutto momento.

2003: il marchio IVECO, con annessa vendita esclusiva dei veicoli commerciali ad esso legati, gli viene revocato, visto il suo indirizzarsi su mezzi plurimarche. Alla fine del primo decennio, gli ultimi 18 dipendenti sono messi in cassa integrazione e due anni dopo la concessionaria purtroppo fallisce.

I freddi numeri non rendono l’idea di quello che era la società, i suoi diversificati servizi di officina, assistenza e vendita, che campeggiano sbiaditi su cartelli appesi nei giganteschi capannoni che siamo sicuri pullulavano di frenesia, rumori meccanici e vociare. Un’ulteriore aneddoto per farvi capire il valore della concessionaria: per vent’anni è stata una delle rivendite autorizzate del marchio Ferrari, unica in Sardegna e tra le poche in Italia.

Oggi, questa ex importante impresa sarda, è del tutto abbandonata. Dal grande cancello scorrevole aperto, si entra nello spiazzo che unisce l’ala uffici e quella meccanica. Ad accoglierci due auto e una… barca, a 30 chilometri dalla costa. La grande insegna LOCCI sembra del tutto integra.

Da una porticina di servizio si accede all’interno dello smisurato locale dedicato a tutti i servizi offerti, e anche dentro, l’accoglienza ce la riservano altre tre automobili. Riconosciamo una Fiat Bravo, una Lancia Thema e una Citroën.

I cartelli macchiati di “lacrime di guano” diventano il fil rouge dell’esplorazione, perché ci fanno da guida silenziosa, facendoci capire la divisione degli spazi all’interno del locale. Un altro elemento ripetitivo è la presenza di coppe commemorative di eventi, gare o partecipazioni: ad alcune manca la base, ad altre le alette, mentre pochissime sono integre.

Siamo in una officina, e non possono mancare i calendari di varie modelle, più o meno svestite, che sono deturpati da disegni di peni e dal tempo, da oli, polvere e orme di scarpe.

Quasi come fossero stelle filanti in giornate di Carnevale, rotoli di scontrini sono sparsi in tutto il pavimento; non mancano scartoffie, polistirolo e cassette di attrezzi, ripiani di metallo, scrivanie e pezzi di ricambio di ogni genere, il tutto alla rinfusa, dove regnano caos, disordine e gli immancabili piccioni.

Nel reparto verniciatura, sono i campioni di colore sparsi per terra che catturano l’attenzione. Riprendendo il discorso carnevalesco, paiono grandi coriandoli rettangolari lanciati alla rinfusa e, dopo tanti anni, c’è ancora l’inconfondibile odore di vernice che riempie solo quello spazio.

Da un’apertura che collega il reparto ad un altro, non possiamo non notare una motrice, che emana un senso di grandiosità, di possanza e di resistenza, nonostante ne sia rimasto solo lo scheletro. Ricorda tanto la storia del posto che stiamo visitando, sempre più increduli e sbigottiti e ancora più curiosi di continuare il giro.

Davanti a dei gradini che conducono nella zona che un tempo era dedicata alla cassa, tre fosse da ispezione sono piene di un miscuglio fatto di oli e altri liquidi e di oggetti buttati dentro da precedenti “visitatori”. Nei gradini di una di esse, un poster con la modella ritratta genera un forte contrasto con il nero della sporcizia dei liquidi viscosi.

Rimaniamo ancora più esterrefatti da una testa di bambola conficcata in un palo: proviamo a dare un senso all’oggetto, al suo eventuale uso, ma non arriva nulla, quindi proseguiamo il tour, che continua proprio nel reparto cassa citato poc’anzi, e perciò saliamo al primo piano.

Un angolo adibito a sala d’attesa, di un verde scuro sbiadito, ci fa capire che sono passati davvero tanti anni dalla sua messa in posa: nei braccioli del divano angolare, ci sono dei posacenere, e immaginiamo i clienti con la sigaretta in mano, in attesa di una firma, del nervosismo dovuto magari ad un eventuale primo acquisto o di un mezzo per ampliare il proprio fatturato grazie anche ad una miglioria motoria.

Una grande vetrata senza più il materiale trasparente, si affaccia su tutta l’officina, e la possiamo ammirare anche dall’alto, nella sua colossale vastità.

Il primo piano è più incasinato del piano terra, ci sono aree in cui non si vede il pavimento, ricoperto da fogli e contenitori da archivio, mentre altre da cocci di vetri in frantumi, depliant di automobili e residui di accessori da scrivania.

Floppini, dischi di Windows 95 e Microsoft Works, nonché PC davvero datati ci portano indietro nel tempo, agli albori della tecnologia che stava diventando alla portata di tutti. Ma quello che ci fa volare in quel piano è l’enorme e sbalorditivo bancone in pietra, con ripiani e angoli in legno: emana ancora adesso una forza e una soggezione che altrove non abbiamo trovato. Ripensiamo alla frenesia degli addetti che si muovevano dietro di esso, agli incessanti squilli dei telefoni, i rumori cartacei di fogli strappati o appena stampati, pinzate di punti metallici e chissà come doveva essere il vociare.

Lo sbattere di una porta chiusa dal vento, ci riporta alla realtà. Siamo di nuovo sulla strada, dove diamo un ultimo sguardo a questo gigante abbandonato pieno di storie e memorie.

Dove si trova: a Macomer, fra via Antonio Gramsci e Viale del Lavoro. Sconsigliamo categoricamente l’ingresso nella struttura. Google Maps.

 


Sardegna Abbandonata è un progetto indipendente che dal 2012 racconta i luoghi abbandonati e nascosti del territorio sardo. Puoi sostenerci con una piccola donazione, seguirci su Facebook o Instagram, sicuramente scriverci se vuoi comunicarci qualcosa, oppure – noi te lo consigliamo! – iscriverti alla nostra newsletter.

Costrutti della Stazione di Monti-Telti

$
0
0

Un tempo qui era tutta città

Un costrutto presenta una struttura e un ordine più o meno saldi e funzionali. Un tempo era il caso dei costrutti della Stazione di Monti-Telti: edifizi sparsi nell’intorno dai molteplici usi, che in questi decenni hanno perso qualunque senso d’essere e forse ogni memoria della loro funzione. Tra ruderi di caserme, una chiesetta campestre, capannoni reduci della seconda guerra modniale, l’ex fabbricato viaggiatori delle SocietàitalianaperleStradeFerrateSecondariedellaSardegna con bello scalo merci, sorge un edificio a due piani molto caratteristico, una rarità ormai introvabili salvo che nei paesini in spopolamento.

Parte tutto dalla ferrovia, nostro grande amore: dalla stazione abbandonata di Enas proseguendo lungo i binari per una decina di chilometri la serendipità ci porta a questo nuovo scalo. Qui, davanti a tanto abbandono, al decostruttivismo architettonico dell’accademia contrapponiamo il decostrutto spontaneo dal tempo, dalla storia e dalla natura. Ai Frecciarossa di Trenitalia noi preferiamo le littorine fantasma della compianta ferrovia Monti-Tempio.

Ci troviamo nella famosa cittadina di Monti, con all’attivo due fermate ferroviarie: la Monti-Telti e Su Canale. Nelle immediate vicinanze troviamo delle vecchie caserme: gli edifici usati dai militari sono praticamente dei ruderi, di difficile accesso a causa di sterpaglie e rovi; diversi non hanno tetto e infissi, mentre altri conservano la loro interezza, visto che sono usati come depositi da lavoratori della “zona”. Di fianco sorge un caseggiato che sta cadendo a pezzi, ma che all’interno “nasconde” un vecchio divano senza alcuni cuscini, una TV senza vetro, una stanza senza una parte di tetto e un pavimento moquettato in guano columbidae, nonché caminetto, piccola cucina a gas e bagno.

Spostandosi a nord verso altri edifici dell’ultima grande guerra civile europea, poco dopo il passaggio a livello ecco una casetta decadente senza porta, circondata da una barriera di roveti: tutto ciò accende la nostra scimmiesca curiosità. L’abitazione a due piani inizia con uno stanzone sulla sinistra, dove di fianco al camino, un cucinino arrugginito fa angolo con dei ripiani ancora pieni di bicchieri sporchi, piatti e tazzine; in mezzo giacciono materassi buttati per terra e una sedia. Nella piccola stanza di destra invece, un altro camino, splendido, con la cappa colorata e un disegno fatto di conchiglie nel mezzo, sembra sia lì solo per scaldare il tappetto di guano che si è formato negli anni, sotto le mensole nidificate. Il sottoscala è un qualcosa di romantico, che stringe il cuore, di tempi andati che furono, di cose che stanno sparendo forse anche dalla memoria, che rimanda a case di anziani e di persone di altri tempi. Non è definibile bagno, forse più “angolo lavaggio” (a pompa?), e sia lo specchio che i ripiani originali derivati dalla struttura, aprono una voragine nelle nostre menti e i ricordi affiorano copiosi: visite a parenti sconosciuti in paesini che stanno morendo, bitter, succhi di frutta, silenzi e immobilità su sedie dato che erano solo gli adulti a parlare – e guai a muoversi! – minuscole televisioni in bianco e nero che trasmettevano messe e notiziari, radio, centrini fatti a mano, rosari appesi alle sedie e donne avvolte in neri scialli vestite con il costume di tutti i giorni. I bagni come li conosciamo erano inesistenti, ci si lavava con catini, con l’acqua che d’inverno sembrava uscire a cubetti. E questa casa non fa eccezione, anche qui manca il gabinetto e tutto il resto. Il lavello è incastrato all’inizio del sottoscala, una bacinella occupa il suo scomparto e ancora, sotto i primi gradini, bottiglie, cassette e barattoli.

Alla fine della doppia rampa sulla destra, cercando nuovi ricordi e nuovi traumi, l’enorme camera da letto è occupata da grandi reti in ferro e voluminosi materassi: la testata di un giaciglio conserva imperituro un incredibile colore marrone scuro, e ci si perde nelle sue venature. Il mobile ha ancora all’interno vestiario e pentolame, per terra coperte e cuscini, secchi e altre bottiglie, una lampada e una TV, e sopra il tavolo un comodino ospita lo scheletro di un gatto: del resto si sa the cat is on the table. Il comò ha alcuni cassetti incastrati e dei contenuti intravisti. In generale, i colori dei mobili e la parte delle coperte non soggetta a polvere hanno mantenuto la loro natura originale, di cui una trama a fiori semplicemente meravigliosa. Sparsi in tutta la stanza libri gialli e non. Uscendo dall’ambiente dietro la porta, tra il mobile e il muro, i resti di un volatile, quasi certo un rapace visto il colore, dalle incantevoli piume, ancora morbide nonostante del corpo sia rimasto solo lo scheletro e nient’altro. Bellissime!

La stanza opposta è invece il contrario della prima: vuota. Solo una rete e, per terra, vecchie ricevute, lettere e una cartolina davvero caratteristica, alla quale hanno tagliato l’angolo col francobollo. Rimane il sottotetto, occupato da riviste degli anni ’80, da quotidiani ancora più vecchi, scarpe e da una grande valigia, aperta e vuota, che rimanda al senso del viaggio: del resto siamo attaccati ad una stazione, chissà quante valigie e bagagli saranno passati. Ci domandiamo se al loro interno ci fossero solo vestiari e oggetti di uso comune o anche sogni e speranze di una nuova vita. Noi, romantici e disillusi, tifiamo per l’immateriale.

Dalle scale in strada, pensando che libri e giornali trovati, calligrafia di firme e ricevute, fanno ritenere il proprietario fosse un uomo di cultura. Così la sensazione alla fine della visita non è di malinconia, ma di ammirazione, di calore, quasi stessimo lasciando la casa dei nonni, con la convinzione di ritornare il prima possibile.

Come non stimare i proprietari? Lui, muratore, si è costruito la casa da solo, ed è per questo che probabilmente la casa regge tuttora, così come il tetto, e ha costruito perfino la chiesetta poco dietro l’abitazione. La signora invece era casalinga. Gli eredi diretti dei due coniugi, i rispettivi figli, non hanno preso in carico l’eredità, ricaduta ora sui tantissimi nipoti che non riescono a dividersi la proprietà, che crediamo spetti di diritto per usucapione ai piccioni che l’hanno abitata negli ultimi anni. Piccola curiosità: il bellissimo portone che ornava l’ingresso ci riferiscono sia stato rubato. Che peccato, chissà che figura faceva con il semi cerchio di ferro lavorato e la ringhiera del terrazzino.

Sempre verso i depositi militari ecco l’ex fabbricato dei viaggiatori, naturalmente chiuso. Nascosta da un grande fico, con le ruote mangiate dalle piante rampicanti che abbelliscono un lato del caseggiato, una splendida Fiat Panda d’epoca è parcheggiata da chissà quanto tempo. Nei depositi bellici due pilastri in cemento, con sopra dei galli in pietra, reggono le ante di un cancello aperto e arrugginito, che indirizza verso i grandi capannoni. Alcuni di essi hanno tracce “recenti” di vita lavorativa, mentre quelli in fondo, senza più riparo, sono in stato di rovina. Ci sono rimasugli di sughero ovunque, dato che siamo di fronte ad un sugherificio e questo spazio aperto avrà visto molte grandi cortecce.

Sulla strada del ritorno, in silenzio coi propri pensieri e sensazioni rimane solo un quesito: perché costruire proprio qui una casa, lontano dalla città, senza servizi e vicini? Si trattava di un voto? Un fioretto? O semplice voglia di tranquillità e pace? Domande senza risposta, nemmeno della voce su Wikipedia: ma soprattutto un pretesto per ipotizzare e fantasticare.

Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 147, a sinistra e a destra, prima e dopo, dell’incrocio con la ferrovia Cagliari-Golfo Aranci. Rispetto sempre, specie per le croci di sant’Andrea. Divieto di accesso in proprietà private, soprattutto quelle pubbliche ferroviarie, rischi di crollo, pericolo di morte e tutto il resto: ma tanto, dopo 10 anni, lo sapete già. Google Maps. Wikimapia.

Fermata Achettas, Sassari

$
0
0

Fermati, oblitera e guarda

Siamo alla fermata Achettas al chilometro 10+751 dalla grande stazione del capoluogo lungo la linea a scartamento ridotto Sassari-Tempio-Palau, istituita dalle Strade Ferrate Sarde a metà del Novecento. Prima le Ferrovie della Sardegna e successivamente l’ARST si alternano nella gestione, finendo per rimanere attiva solo al passaggio del Trenino Verde, ma nel 2015 chiude “definitivamente”.

Forse è un richiamo del DNA sardo, della cronica anemia mediterranea che ci spinge ad “assumere” ferro al di fuori del nostro organismo; tra stazioni e miniere, passando per centrali elettriche, siti militari e fabbriche, la nostra è una vera e propria necessità, un bisogno impellente di cui non possiamo fare a meno. Sia esso sano o arrugginito, poco importa: nelle campagne sassaresi, lontano da strade asfaltate, circondati da rovi, capre, asinelli e pecore, se ne trova in abbondanza. Siamo all’estremo orientale della città, e qui vicino si erge uno sconosciuto costone, autodefinitosi Monte I Piani che nel disinteresse generale rappresenta il punto più alto del Comune, a 489 vertiginosi metri.

Delusi dai navigatori occidentali a due chilometri dall’arrivo, cerchiamo l’ennesima strada alternativa e ci incamminiamo su un grande prato verde, senza speranze, ma con diverse pecore che ci guardano stupite e intimorite. In dieci minuti circa siamo sulla strada ferrata, e nei venti minuti successivi, finalmente vediamo da lontano la vecchia fermata. Come sempre siamo nel nulla, e come sempre nel nulla sardo tutto condivide lo stesso nome: il nuraghe Achettas, la sorgente Achettas, questa fermata e chissà cos’altro.

Ma non facciamo confusione -noi siamo la confusione- e arriviamo così davanti a questo fabbricato dismesso, il fratello di quello di Filigheddu, cugino di primo grado con quello di Martis e di molti altri, poco distante dalla Chiesa di Santa Maria Iscalas, ritroviamo intatte certe sensazioni: la fame degli occhi, della conoscenza, quella dei brividi come superi la soglia e delle emozioni nel girare per la prima volta dentro un posto sconosciuto, sono insaziabili.

Tanto per gradire, all’esterno c’è un tavolo grande fatto di cemento e due pezzi di rotaie (eretto sicuramente dai gloriosi giganti nuragici), un deposito con alcune sedie e un gabbiotto, le ritirate adiacenti al fabbricato con dentro un frigorifero e poi l’edificio principale, incantevole nella sua semplicità, fuori da ogni contesto moderno. Come si apre l’uscio della porta principale, con nostro dispiacere diversi gechi cercano riparo: sono animali stupendi, da noi importunati. Sul pavimento, i resti di un uccello e quelli di una macchina, con tanto di targhe. Segni di uso abitativo a breve termine con materassi, padelle, bottiglie e vestiario, poi libri, un’asse da stiro e una testata di un letto girata da un lato. Sul muro, un rosario, in prossimità dello sportello comunicante con l’esterno, usato senza dover aprire per forza la porta principale. Il bagno custodisce tracce di utilizzo, vista la presenza di rasoi, spazzolini, altri superflui oggetti da igiene personale. Alla fine dei gradini, una grande stanza col pavimento che in alcuni tratti è staccato da terra, ha al suo interno solo uno scatolone, con sopra una scacchiera, e per terra un quaderno ad anelli con vari appunti scritti a mano. Strana la gruccia appesa, ancora in attesa di una camicia o di un maglione, da una persona forse di ritorno dal lavoro, e la sedia in stile scolastico, che sembra dirci riposatevi un poco prima di entrare nell’altra stanza: c’è tanto da vedere, e i ricordi invaderanno la vostra mente, con l’ingenuità degli adolescenti di un tempo che vi darà uno schiaffo emotivo niente male. Non possiamo fare altro che entrare.

C’è tanto disordine e non è una sorpresa: tra scatole marcate “PostalMarket”, un materasso, mobili, libri e quaderni, uno di questi ultimi cattura la nostra attenzione: niente di strano nel nome, cognome, classe, scuola e materia, ma quello che c’è scritto di fianco ad “abitazione” ci scioglie il cuore: CAMPAGNA.

Nessun indirizzo, nessuna località, niente che possa ricondurre a questo posto. Per una ragazzina della terza media, basta tutto quello che circonda questa struttura come punto di riferimento. Pensateci un attimo, provate ad immaginare la risposta ad una delle più elementari domande di questo mondo, a quel “dove abiti?”, ricevere una risposta con solo un sostantivo. Oggi si rimarrebbe stupiti, si cercherebbero altri indizi, si porrebbero altre domande, si proverebbe a capire meglio, ma per noi non c’è altro da chiarire, perché oggi, non in mezzo al nulla, ma in mezzo alla campagna c’è qualcosa. C’è un insegnamento, un valore aggiunto, una carezza al nostro animo, un tornare alle origini, un’emozione che ci fa commuovere, una sensazione di aver ritrovato qualcosa di perduto, ancorato ai nostri ricordi.

Notiamo infine lo splendido lampadario e i ritagli di giornale alle pareti, dove simpatizziamo per la scelta di aver attaccato immagini della intramontabile Lancia Delta; saliamo inoltre su un piccolo soppalco di fianco alla stanza appena lasciata, dove giacciono per terra biancheria per la casa e vecchi giochi che ci sospingono ulteriormente su ricordi sopiti. Scendiamo le scale, richiudiamo la porta e siamo di nuovo sui binari. La caccia al ferro prosegue, e le stazioni lungo tutta questa tratta non mancano.

Dove si trova: tra le campagne di Osilo, Sennori e Sassari (SS), arrivando dalla Strada Provinciale dell’Anglona e girando per il canile, prendendo la Strada Vicinale Achettas e al passaggio a livello proseguendo sui binari sulla sinistra. Oppure dalla Strada Provinciale 72 da San Lorenzo, la frazione di Osilo dagli stupendi mulini e un bel po’ di strada bianca e a piedi. Badate alla vostra vita e sicurezza, che già siete grandi. Google Maps. Wikimapia.

Parco fluviale del Padrongianus, Olbia

$
0
0

Lungo il fiume sacro all’abbandono

NOTA: LE FOTO RISALGONO AL PASSATO; L’AREA È STATA BONIFICATA.

Un parco per la salvaguardia delle specie minacciate di estinzione, a sua volta sul perenne baratro della sopravvivenza: è quello che sembra essere il beffardo destino del Parco del Padrongianus, Padrongiano o Padrogiano, una vasta area naturalistica di 33 ettari situata presso la foce del fiume omonimo, a due passi da Olbia.

Inaugurato in un 2009 oggi remoto come un’era geologica, conferma la convinzione secondo cui Madre Natura è del tutto indifferente ai destini degli esseri umani, anzi, talvolta sembra sarcasticamente accanirsi contro chi vuole proteggerla.

Il primo, durissimo colpo assestato fu infatti quello della tragica alluvione del novembre 2013, in cui l’esondazione del Padrongianus provocò gravi danni alle strutture, e distrusse il ponte di legno che lo attraversava.

Nel 2014 il centro è stato riaperto per la gioia delle scolaresche, per richiudere nuovamente l’anno successivo stavolta per cause innaturali: carenza di fondi e difficoltà amministrative.

Da allora, Madre Natura ha ripreso possesso dei tre edifici e del parco giochi, in alternanza con meno bucoliche squadriglie di vandali che hanno devastato il centro ricettivo. Solo di recente, in previsione di una prossima riqualificazione, sono stati effettuati i primi parziali interventi di pulizia e sgombero delle macerie.

Quale sarà, dunque, il destino di questo tanto bistrattato Parco? Non ci resta che attendere, seduti a contemplare sulla riva del fiume, aspettando la prossima mossa di qualche benevolo Ente. O meglio forse, come deus ex machina, di qualche benevola Entità, come ad esempio gli Annunaki, inspiegabilmente evocati su uno dei tanti scivoli cadenti che, assieme a rovi, folaghe e gallinelle d’acqua, restano per ora gli unici abitanti della zona.

Dove si trova: nella periferia sud-orientale di Olbia, svoltando dalla Strada Statale 125 “Orientale Sarda” in via Padrongianus (non ci voleva un genio). Google Maps.


Ovile dell’ex colonia penale, Tramariglio

$
0
0

Passaggio obbligato lungo la panoramica strada che conduce al promontorio di Capo Caccia, la frazione di Tramariglio, nel comune di Alghero, passa quasi inosservata dai finestrini dei vari mezzi di trasporto.

Seminascosto da una vasta pineta che sembra metterlo in ombra anche dai fasti estivi dell’affollatissima Riviera del Corallo, questo piccolo agglomerato di case sembra colpevolmente memore del suo passato: dal 1941 al 1961, infatti, Tramariglio è stata una colonia penale.

Edificata nel 1938 per conto dell’Ente Ferrarese di Colonizzazione, era parte integrante di un vasto progetto di bonifica della piana della Nurra concepito durante il ventennio fascista, sopravvivendogli a sua volta per un ulteriore ventennio.

Estesa per 120 ettari, ospitava circa 400 detenuti che, sotto un sistema più aperto del carcere duro, svolgevano principalmente attività di agricoltura e allevamento.

Nel 1961 questa piccola cittadina distopica cessò la sua funzione detentiva, e i terreni con i suoi viali alberati vennero restituiti alla Regione.

Il suo futuro venne quindi riprogettato verso la creazione di una utopica città-giardino: l’edificio principale del carcere, noto con l’eufemistico nome di Diramazione Centrale, venne riconvertito a colonia per l’infanzia. Nacque così Casa Gioiosa, che restò attiva per diversi anni fino alla chiusura.

Il degrado si è quindi imposto su tutta Tramariglio, fino alla sua riscoperta e all’inclusione, nel 1999, nel Parco Regionale di Porto Conte, in seguito alla quale gran parte della frazione è stata recuperata e riconvertita a museo carcerario a partire dal 2007.

Qualche traccia di macerie però sopravvive: fra tutte spicca il vecchio ovile, una grossa struttura di oltre 50 metri di lunghezza, oggi decadente e invasa dalla macchia mediterranea.

Muta testimonianza di due oscuri ventenni, questo edificio anonimo ma affascinante, immerso nel silenzio, è quasi completamente spoglio di qualsiasi indizio della sua passata funzione.

Pochissimi segni umani, ancor meno quelli di animali non umani, ad eccezione di un abbeveratoio con una protome taurina decisamente postmoderna, se non postnuragica.

Da distopia a utopia, passando per l’abbandono che ancora mostra i suoi segni rassicuranti e familiari, Tramariglio sembra resistere alla nuova e forse più minacciosa distopia incombente: il turismo di massa.

Dove si trova: nella frazione di Tramariglio del comune di Alghero (SS). È raggiungibile con una Diramazione Occidentale che si diparte poco dopo la vecchia Diramazione Centrale. Google Maps.

Case Oredda, Sassari

$
0
0

In mezzo al nulla c’è un nome. O più di uno.

Le Case Oredda, attestate anche come C. Raimondi, sono oggi solo un toponimo dello sterminato agro di Sassari, nei pressi della mal nata zona industriale di Truncu Reale e della regione Saltareddu. Eppure ancora oggi i suoi resti bastano a raccontare quella che fu una fiorente azienda agricola con decine di lavoratori, tanto da regalare la suggestione di un piccolo villaggio.

Non sappiamo se qualcuno degli abitanti sia sopravvissuto, ma di certo troverebbe irriconoscibili le sue campagne: attraversate da tralicci dell’alta tensione e superstrade a quattro corsie, dominate da industrie del riciclo e da un carcere fortezza. Dei tanti animali che avranno popolato la tenuta neanche l’ombra, sostituiti dalla forza della macchine o chiusi nei capannoni. Ma del resto se tornassero tra qualche anno ancora, andrebbe ancora peggio: potrebbero non trovare nemmeno più umani, sostituiti dai robot e dalla piena automazione anche qui, nella periferia dell’impero.

Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 132, in un tratto parallelo alla Strada Statale 131 Carlo Felice, in località Truncu Reale a Sassari. Google Maps.

Pronto Soccorso dell’Ospedale Marino, Cagliari

$
0
0

Per decenni l’Ospedale Marino ha assistito e curato migliaia di cagliaritani, molti dei quali, prima di entrare nei suoi enormi corridoi semicircolari, sono stazionati nelle stanzette di un piccolo e vicino edificio ricoperto da mattonelle rossastre.

A poca distanza dall’ex-vecchio ospedale, infatti, si trova il suo ex-Pronto Soccorso: dal prefisso iniziale che le accomuna, possiamo facilmente intuire che entrambe le strutture hanno condiviso la medesima sorte.

Dai primi anni ’50 al 1982 questo anonimo caseggiato è stato teatro di attese, angosce, paure, sofferenza, morti e rianimazioni. Oggi, stretto tra spiaggia, mare e ristoranti balneari, è accerchiato, recintato, videosorvegliato e isolato per sempre dal Mondo Esterno per le grandi quantità di amianto racchiuso tra le sue mura.

Strano e beffardo destino: dopo anni passati a salvare vite, l’ex-Pronto Soccorso si trova suo malgrado nell’ingrato ruolo di potenziale dispensatore di morte.

 

Dove si trova: sul lungomare del Poetto, a Cagliari, tra il vecchio e il nuovo Ospedale Marino. Google Maps

Case Oredda, Sassari

$
0
0

In mezzo al nulla c’è un nome. O più di uno.

Le Case Oredda, attestate anche come C. Raimondi, sono oggi solo un toponimo dello sterminato agro di Sassari, nei pressi della mal nata zona industriale di Truncu Reale e della regione Saltareddu. Eppure ancora oggi i suoi resti bastano a raccontare quella che fu una fiorente azienda agricola con decine di lavoratori, tanto da regalare la suggestione di un piccolo villaggio.

Non sappiamo se qualcuno degli abitanti sia sopravvissuto, ma di certo troverebbe irriconoscibili le sue campagne: attraversate da tralicci dell’alta tensione e superstrade a quattro corsie, dominate da industrie del riciclo e da un carcere fortezza. Dei tanti animali che avranno popolato la tenuta neanche l’ombra, sostituiti dalla forza della macchine o chiusi nei capannoni. Ma del resto se tornassero tra qualche anno ancora, andrebbe ancora peggio: potrebbero non trovare nemmeno più umani, sostituiti dai robot e dalla piena automazione anche qui, nella periferia dell’impero.

Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 132, in un tratto parallelo alla Strada Statale 131 Carlo Felice, in località Truncu Reale a Sassari. Google Maps.

Costrutti della Stazione di Monti-Telti

$
0
0

Un tempo qui era tutta città

Un costrutto presenta una struttura e un ordine più o meno saldi e funzionali. Un tempo era il caso dei costrutti della Stazione di Monti-Telti: edifizi sparsi nell’intorno dai molteplici usi, che in questi decenni hanno perso qualunque senso d’essere e forse ogni memoria della loro funzione. Tra ruderi di caserme, una chiesetta campestre, capannoni reduci della Seconda Guerra Mondiale, l’ex fabbricato viaggiatori delle SocietàitalianaperleStradeFerrateSecondariedellaSardegna con bello scalo merci, sorge un edificio a due piani molto caratteristico, una rarità ormai introvabile salvo che nei paesini in spopolamento.

Parte tutto dalla ferrovia, nostro grande amore: dalla stazione abbandonata di Enas proseguendo lungo i binari per una decina di chilometri la serendipità ci porta a questo nuovo scalo. Qui, davanti a tanto abbandono, al decostruttivismo architettonico dell’accademia contrapponiamo il decostrutto spontaneo dal tempo, dalla storia e dalla natura. Ai Frecciarossa di Trenitalia noi preferiamo le littorine fantasma della compianta ferrovia Monti-Tempio.

Ci troviamo nella famosa cittadina di Monti, con all’attivo due fermate ferroviarie: la Monti-Telti e Su Canale. Nelle immediate vicinanze troviamo delle vecchie caserme: gli edifici usati dai militari sono praticamente dei ruderi, di difficile accesso a causa di sterpaglie e rovi; diversi non hanno tetto e infissi, mentre altri conservano la loro interezza, visto che sono usati come depositi da lavoratori della “zona”. Di fianco sorge un caseggiato che sta cadendo a pezzi, ma che all’interno “nasconde” un vecchio divano senza alcuni cuscini, una TV senza vetro, una stanza senza una parte di tetto e un pavimento moquettato in guano columbidae, nonché caminetto, piccola cucina a gas e bagno.

Sempre verso i depositi militari ecco l’ex fabbricato dei viaggiatori, naturalmente chiuso. Nascosta da un grande fico, con le ruote mangiate dalle piante rampicanti che abbelliscono un lato del caseggiato, una splendida Fiat Panda d’epoca è parcheggiata da chissà quanto tempo. Nei depositi bellici due pilastri in cemento, con sopra dei galli in pietra, reggono le ante di un cancello aperto e arrugginito, che indirizza verso i grandi capannoni. Alcuni di essi hanno tracce “recenti” di vita lavorativa, mentre quelli in fondo, senza più riparo, sono in stato di rovina. Ci sono rimasugli di sughero ovunque, dato che siamo di fronte ad un sugherificio e questo spazio aperto avrà visto molte grandi cortecce.

Sulla strada del ritorno, in silenzio coi propri pensieri e sensazioni rimane solo un quesito: perché costruire proprio qui una casa, lontano dalla città, senza servizi e vicini? Si trattava di un voto? Un fioretto? O semplice voglia di tranquillità e pace? Domande senza risposta, nemmeno della voce su Wikipedia: ma soprattutto un pretesto per ipotizzare e fantasticare.

Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 147, a sinistra e a destra, prima e dopo, dell’incrocio con la ferrovia Cagliari-Golfo Aranci. Rispetto sempre, specie per le croci di sant’Andrea. Divieto di accesso in proprietà private, soprattutto quelle pubbliche ferroviarie, rischi di crollo, pericolo di morte e tutto il resto: ma tanto, dopo dieci anni, lo sapete già. Google Maps. Wikimapia.

Viewing all 80 articles
Browse latest View live